Mario Valenti

L’atto fotografico... diventa lo strumento principe per chiudere la forbice tra conscio ed inconscio, traduce la voglia del fuori controllo, disegna la tangente al cerchio del senso della misura, diventa il campo di elezione della non fredda e sterile sperimentazione che accompagna la sensazione straordinaria della creazione raggiunta... “stato provvidenziale” che schiude la nostra mente al desiderio di conoscenza del proprio autentico essere, uno stimolo verso la ricerca di qualcosa di latente che vogliamo salga ai piani della consapevolezza... svelando ciò che non conosco, accompagnando una direzione dello sguardo che mi restituisca forme cariche di senso che riescano ad alterare l’equilibrio dell’ordinario” 


Angelo Zzaven: Mario, intervistare te non mi risulta cosa agevole, l'amicizia e la stima che ci lega, le tante volte che ci siamo confrontati/scontrati sulla fotografia, il timore che possa in parte intuire le tue reazioni, mi fa temere per un risultato dialetticamente con poca verve. Ma ci voglio provare perché amo le tue immagini, rispetto la tua creatività e spero di metterti nelle migliori condizioni affinché tu possa raccontarti. Per cominciare vorrei che mi parlassi di te, chi sei, cosa fai nella vita, come hai incontrato la fotografia?

Mario Valenti: Caro Angelo, se pormi delle domande per te non risulta cosa agevole, risponderti, per me, rappresenta compito ancor più difficile, è sempre un momento di vulnerabile condivisione non semplice da affrontare. Ci conosciamo da tanto tempo, troppo per riuscire a dare un’impronta formale a questa intervista. Prendo tempo e cercherò di non evitarmi. Faccio l’insegnante in un istituto di istruzione secondaria ed ho la fortuna di frequentare giornalmente ragazzi in fase adolescenziale che mi donano linfa vitale a livello relazionale, con freschezza e trasparenza di comportamento. Per il resto, occupo il mio posto nel mondo, un po' instabile, dal perimetro non sempre nitido, vivendo continuamente il tentativo di riuscire a colmare la distanza tra ciò che sono e ciò che vorrei essere. Qualcuno direbbe: alla ricerca di sé stessi. Ecco, direi che passo parecchio tempo a cercarmi, e non sempre riesco a trovarmi. Inutile dire che la fotografia mi aiuta in questo, l’ho cercata parecchi anni fa come quell’altrove che colmasse il vuoto esistente in quel momento ed ancora nel presente rappresenta il luogo fisico e mentale prediletto, nel quale riverso la parte più profonda di me stesso, la zona franca dove maggiormente assaporo il concetto di azione gratuita e non speculativa, vivendo quasi ingenuamente l'utopia del libero arbitrio.

Mario Valenti

Angelo Zzaven: Nell'arco degli anni ho imparato ad apprezzarti per il senso della misura, per il tuo pragmatismo, l'intelligenza, il senso di responsabilità delle tue azioni. In campo fotografico, come molti di noi, hai vissuto momenti di esaltazione ma anche di disillusione. Mantenendo, però, sempre accesa la luce della creatività e della sperimentazione. Quanto è importante la ricerca del Se, il provare a “trovarsi” attraverso la fredda sperimentazione fotografica? In questo senso la fotografia può avere un ruolo terapeutico nel risolvere le proprie inquietudini?

Mario Valenti: Ti ringrazio degli apprezzamenti, il tanto tempo passato insieme ci permette una comprensione dell’altro che spesso risulta a noi poco conosciuta. La tua domanda, infatti, ne fa scaturire in me un’altra: quanto l’immagine che ci viene restituita dall’altro corrisponde alla percezione che abbiamo di noi stessi? Quanto i feedback ricevuti collimano o creano un solco rispetto all’idea di noi che abbiamo strutturato? Sappiamo che dalla soluzione dell’eventuale conflitto creato, deriva la piena accettazione di sé stessi e quella completezza interiore tanto agognata, scevra da scissioni interne. Dico questo perché vorrei soffermarmi sulla parte della tua domanda che si riferisce al senso della misura. Mi appartiene? Chiaramente sì. Purtroppo non riesco a non sentirlo come un peso. Descrive un perimetro che non sempre mi appartiene, come se un governo presieduto dall’onnipresente super io imponesse abiti da indossare che spesso stanno stretti. Fondamentalmente, lo si apprezza da fuori, un po' lo si soffre dentro, dove magari pragmatici e misurati non si è. L’atto fotografico, in me, risolve questo contrasto. Diventa lo strumento principe per chiudere la forbice tra conscio ed inconscio, traduce la voglia del fuori controllo, disegna la tangente al cerchio del senso della misura, diventa il campo di elezione della non fredda e sterile sperimentazione che accompagna la sensazione straordinaria della creazione raggiunta. Se sottolineassi il valore terapeutico della fotografia come soluzione delle nostre inquietudini, andrei ad accentare negativamente il valore delle stesse. Le ritengo, invece, uno “stato provvidenziale” che schiude la nostra mente al desiderio di conoscenza del proprio autentico essere, uno stimolo verso la ricerca di qualcosa di latente che vogliamo salga ai piani della consapevolezza. Non voglio che la fotografia curi, o quantomeno mi piacerebbe che lo facesse rivelando, svelando ciò che non conosco, accompagnando una direzione dello sguardo che mi restituisca forme cariche di senso che riescano ad alterare l’equilibrio dell’ordinario.

Angelo Zzaven: Interessante il tuo punto di vista... ma andiamo oltre. La ricerca del se, attraverso la fotografia, passa attraverso il bagaglio culturale accumulato nel corso della propria vita e dalla personale formazione visiva. Quali sono state le influenze, non necessariamente del mondo della fotografia, che hanno arricchito la tua visione?

Mario Valenti: C’è stato sempre un costante flusso in entrata. Molte sensazioni hanno lasciato traccia, come dici tu, direzionando e arricchendo la mia visione. Mi piace parecchio ascoltare musica, il più delle volte in maniera intima, in cuffia, come una forma di isolamento cercata e raggiunta. Impossibile, e forse anche inutile, elencare gli autori che hanno lasciato traccia nitida nella mia percezione, forse metterei i Dakota Suite che hanno accompagnato idealmente uno dei primi lavori, Melodie aperte. Vincent van Gogh, Edvard Munch, Egon Schiele, velocemente nel campo pittura, l’espressionismo ha creato terreno fertile per quanto riguarda il mio sentire fotografico. Da questo sottofondo di influenze percettive, tuttavia, estrarrei dei lampi che hanno rafforzato in me il convincimento che tutto in noi già esiste e che ha bisogno solo di un elemento scatenante, di una scintilla per uscir fuori e rendersi palese: il libro di un fotografo svizzero Olivier Christinat, “Lumière cendrèe”, due mostre fotografiche di Mario Giacomelli e Carmelo Bongiorno viste parecchi anni or sono e i contributi di Jean Claude Lemagny sulla rivista Gente di Fotografia, una delle poche che nel tempo è riuscita a mantenere vivo e attento lo sguardo sull’arte visiva contemporanea. Come direbbero quelli bravi, se oggi la mia visione fotografica è quella che è, lo devo soprattutto a loro.

Mario Valenti

Angelo Zzaven: Le tue immagini nascono dalle possibilità offerte dai moderni strumenti fotografici, servendoti di pochissima post produzione. Quanto è importante questo aspetto nella tua fotografia? Mi puoi accennare qualcosa sulle tecniche usate sui tuoi ultimi lavori?

Mario Valenti: Ho sempre collocato una sorta di durante emozionale in fase di ripresa e mi è sempre piaciuto delimitare in essa un perimetro realizzativo entro il quale far nascere l’immagine praticamente nella sua forma finale. Paletti ben fissati mi hanno portato ad una fase di post-produzione ridotta al minimo, guidata quasi dagli stessi criteri analogici che utilizzavo in camera oscura. Ancora conservo una vecchia reflex Contax a pellicola con la quale ho realizzato le mie prime doppie esposizioni e non è un caso che il mio passaggio al digitale si sia realizzato con apparecchi fotografici nei quali ho cercato modalità di esposizione che andassero oltre quelle usuali. Possibilità operative, magari previste per altre finalità, utilizzate in maniera poco ortodossa, quasi per scoperta, per raggiungere l’obiettivo quasi velleitario di destrutturare e ricostruire il reale. Non ho preferenze riguardo al mezzo fotografico. Utilizzo mirrorless o smartphone in base al bisogno del momento. Devono solo permettermi determinati percorsi operativi. Amo le lunghe esposizioni, non da posa B. Rifuggo la cattura dei singoli istanti, prediligo il loro sommarsi. In questi ultimi anni mi sono creato una sorta di prigione, per me dorata, dalla quale non riesco, e forse non voglio uscire. Fatta di app per smartphone ed abusate modalità di scatto che le mirrorless Olympus mi permettono di utilizzare. Come spesso si dice, ho imparato le regole per poi, nel tempo, volutamente dimenticarle.

Angelo Zzaven: La posa lunga e la somma di tanti istanti sono ben visibili nell'ultimo tuo lavoro “Empitiness”, di cui ho tratto alcune immagini per questa intervista. Immagini destrutturate, svuotate, eseguite, come dici tu: utilizzando in modo improprio lo strumento fotografico, rivivono in una nuova forma fantastica, in un gioco di pieno e vuoto inaspettato, dalla ripetitività insistente, quasi ossessiva... me ne vuoi parlare?

Mario Valenti: Volevo dare forma al vuoto, riempirlo con il nulla, creare un perimetro che lo racchiudesse, quasi per esorcizzare e combattere l’inquietudine che psicologicamente deriva da esso. Una sorta di traduzione visiva e letterale, non simbolica, del vuoto, in cui far nascere un confine che descrivesse la forma e dividesse un dentro (noi) da un fuori (realtà). Potevo riuscirci qualora fossi riuscito a creare questo limite separatore che ci contiene ed allo stesso tempo ci divide dal mondo esterno, una sorta di traccia luminosa che forma orizzonte visivo. Un perimetro che circoscrivesse metaforicamente lo stato d’incertezza, di disagio, quasi di sofferenza che proviamo quando sentiamo impellente la necessità di riempire di senso la pagina bianca che sentiamo dentro di noi o quando avvertiamo la vacuità delle parole che abbiamo utilizzato nel tentativo di farlo.

Mi ha aiutato parecchio stare accanto a queste immagini, avere avuto il coraggio di affrontare questa sorta di horror vacui che crea immobilità fisica e mentale, non fuggire da essa ma starci dentro e trovare il giusto significato da dare alla sensazione di vuoto che spesso ci accompagna. Creativamente, positivamente, cercando le giuste energie per affrontare il viaggio della vita, allontanando lo stato di precarietà esistenziale, perdendosi per poi ritrovarsi.

Per quanto riguarda l’aspetto meramente realizzativo c’è poco da dire. Tecnicamente non è stato facile, il caso mi ha aiutato, la curiosità verso le possibilità operative dei mezzi fotografici attuali ha aiutato il caso. Una strana alchimia tra strumento e modalità di ripresa che si è realizzata.

Mario Valenti

Angelo Zzaven: So che sei un cultore della buona musica e molte volte mi sono chiesto se questa tua esperienza/competenza di ascolto, fatta spesso con strumenti elettivi, sia rintracciabile nelle tue immagini; quali punti di contatto individui tra questi due medium che ami particolarmente?

Mario Valenti: Ti rispondo parzialmente con una considerazione che spesso scaturisce in me dopo aver visionato, per pura curiosità, gli annunci dello stesso individuo sui vari portali di compravendita. Spesso accanto ad inserzioni che riguardano la fotografia ce ne sono altre che orbitano intorno al mondo dell’alta fedeltà, legata alla riproduzione musicale. Mi pare evidente come determinate disposizioni interiori prendano, poi, direzioni che sono comuni in molti. Chiaramente parliamo di mondi molto diversi tra di loro, in cui l’approccio creativo sembra essere utilizzato con finalità differenti: da una parte la cosiddetta hi-fi, il cui intento è quello della riproduzione tecnicamente fedele dell’evento sonoro, dall’altra la fotografia che, invece, almeno per quanto mi riguarda, non si accontenta di “copiare” la realtà ma spesso ha la presunzione di destrutturarla per poi reinterpretarla. Trovo curiosa la coesistenza di tali passioni e penso che possa trovare giustificazione in quella sorta di particolare interesse che si nutre per il mezzo tecnico, sia esso un amplificatore musicale piuttosto che una macchina fotografica. Una sorta di feticismo tecnologico che trasforma semplici manufatti in oggetti dotati di poteri magici.

Altra considerazione: sulla contrapposizione tra superficie e profondità. Mi ritrovo spesso a “sostare” sull’insieme musica-parole piuttosto che sul significato delle parole stesse. Al di là del fatto che il testo sia o meno in una lingua per me comprensibile: il suono e la musicalità delle parole influenzano in me la percezione del testo, trascendendo la sua decodificazione convenzionale. Come se la componente esteriore prevalesse sul contenuto, la sensazione sulla percezione. Lo stesso percorso seguo per quanto riguarda la fruizione di un’immagine, spesso la forma prende il sopravvento, accentando sempre la dicotomia fra apparenza e sostanza, in parte superandola. Una deduzione che parte dalla esteriorità, annullandone il disvalore rispetto alla profondità, con il segno che prevale sul suo significato. Aggiungo, probabilmente non vi è conoscenza senza la forma con la quale il mondo ci appare e si rivela. Mi piacerebbe chiamare il tutto come elogio della superficie.

Angelo Zzaven: Mario, è capitato di confrontarci sul discorso di condividere o meno le immagini sui social, giungendo a volte su posizioni contrastanti. Io credo che se usati nel giusto modo, possano rappresentare una reale opportunità che sintonizza col proprio tempo, la propria contemporaneità, dando un continuo e veloce feedback di quello che si sta producendo. Che cosa ne pensi, come la vedi?

Mario Valenti: Non posso che essere d’accordo con te. Il problema, ammesso che poi sia tale, è dentro la tua domanda ed è legato al “giusto modo” che motiva la condivisione. Spesso quest’ultima non è legata solo alla voglia di comunicare e interagire con gli altri, dividere il piacere personale con coloro che ti guardano, ma sottende, non palesemente, un bisogno di gratificazione personale, una sorta di autorealizzazione connessa al feedback di ritorno, un desiderio di appartenenza al gruppo che in un certo qual modo quasi certifica la nostra esistenza. Niente di strano, ci mancherebbe, in fondo siamo degli animali sociali con una dimensione reale che spesso si confonde con quella virtuale, determinati bisogni appartengono all’essere umano e lo spingono positivamente verso il fare. Mi piacerebbe solo pensare che determinate dinamiche interiori, che ci portano alla condivisione sui social, ci risultino trasparenti e ci si rapporti con esse con onestà di intenti. Magari non celare il desiderio di connettersi con gli altri e di ricevere da quest’ultimi gli agognati like, con l’apparente gratuita voglia di comunicare. Come avrai capito, il mio rapporto con i social è abbastanza tormentato, sento di averne bisogno, si cresce anche con essi, non rifiuto e ritengo mi appartengano tutti i meccanismi che portano alla creazione del biglietto di presenza sugli stessi, vorrei solo che l’esperienza condivisa, nella sua valenza, venga messa al centro di tutto. Chiaramente nessuno mai dirà il contrario, la sterile e, a volte, pretestuosa ridondanza dei contenuti presenti sui social, però, mi fa capire altro.

Mario Valenti

Angelo Zzaven: Caro Mario, la nostra chiacchierata sta sviando nel serioso, era uno dei pericoli che temevo all'inizio ... ti faccio tre domande veloci per alleggerire: Qual è la prima cosa che pensi al risveglio, e l'ultima prima di addormentarti? Poi vorrei sapere una cosa che ti fa andare avanti e una cosa per cui ti piacerebbe tornare indietro? Infine (sono cattivo), mi sono chiesto, a quale di queste tre cose potresti fare a meno: un buon caffè, una cipollina (specialità della cucina catanese) o una raviola di ricotta?

Mario Valenti: Hai ragione Angelo, togliamo peso, risaliamo un po' in superficie. Ovviamente la colpa è tua (faccina sorridente), le domande che mi poni non prevedono leggerezza. O forse sono io che scendo in profondità facilmente. Poco conta. Passo alla domanda e parto dalla fine: non sicuro, ma dico caffè. Spesso è legato all’attesa, che poi sfocia in pausa, in tempo che si ferma, come se il piacere fosse legato non tanto alla bontà del caffè stesso, quanto alla consapevolezza di essere riusciti a svincolarsi dal rigido flusso dell’ordinario. Apre alla conversazione e chiude la porta ai doveri del quotidiano. Le altre due cose, al di là più lento consumo, pur rappresentando per me, come ben sai, debolezze alimentari, mi portano maggiormente verso la sensazione del piacere effimero. Comunque, vedrò di capire meglio alla prossima cipollina.

Ritorno all’inizio: metto tutto insieme e dico che di fase rem vorrei maggiormente godere. Spesso risvegliarsi e addormentarsi si legano al bilancio della giornata, con preventivo e consuntivo che si scontrano. Quando mi sveglio penso alle cose che vorrei fare, prima di addormentarmi penso alle cose che non sono riuscito a fare. Non riesco a mettere d’accordo i due momenti e vivo una perenne insoddisfazione da scarsa capacità di fuga dal bisogno di riuscire a dare sempre un senso alle cose, o forse da semplice rassegnazione nel non essere riuscito a trovarlo. È una continua battaglia di comprensione, che però ogni giorno aggiunge nuovi livelli di conoscenza di me stesso. Sommo strati, che valuto guardandomi da lontano per vedere più chiaramente. Ok, mi fermo, già ti vedo, sono diventato troppo “serio” ed allora completo dicendo che se riuscissi a tornare indietro, sicuramente imparerei il saluto al sole, lo farei più volte al giorno, con la porta aperta al rilassamento, alla tonicità muscolare, al consumo di calorie e potrei mangiare cipolline e raviole con minori sensi di colpa.

Mario Valenti

Angelo Zzaven: L'intelligenza senza ambizione e come un uccello senza ali, che cosa pensi di questa frase di Salvador Dalì?

Mario Valenti: Penso che mi piace volare basso come gli uccelli quando il tempo non è clemente. Il parallelo espresso da Dalì è ardito e sarò volutamente banale nel dire che tutto dipenderà dal senso della misura. Sposterà l’ago della bilancia da un’ambizione con connotati positivi ad un’altra in cui eventuali eccessi potranno portare ad una valutazione negativa dell’ambizione stessa. Se l’intelligenza, come capacità di trovare risposte e soluzioni, si accompagnerà alla curiosità, come molla di attivazione dell’ambizione, allora il cerchio si chiuderà, e nel mondo dell’arte questa equazione è quella da ricercare. Un’ambizione che si tradurrà in un sano desiderio di comprensione, aiuterà l’artista, e comunque l’uomo in generale, a cercare e a trovare le risposte cui ambisce, che riveleranno, a loro volta, nuove vie da seguire e percorrere in autonomia. Penso che alla base della giusta direzione di tale processo ci sia una profonda conoscenza di sé stessi e dei propri limiti, una trasparente consapevolezza delle proprie aspettative ed esigenze, una buona autostima che abbracci il senso della vita e lo traduca nel raggiungimento di obiettivi realizzabili. Magari, ponendo alla base del miglioramento, una non paura dell’ignoto, mettendo da parte le sicurezze dell'apparente solidità del punto di partenza e abbracciando il fascino del mistero dei nuovi percorsi da esplorare.

Angelo Zzaven: Mario, la nostra breve chiacchierata, inconsuetamente seriosa, finisce qui, come faccio sempre ti chiedo di rispondere a una domanda che non ti ho fatto. Ti ringrazio per esserti raccontato in modo aperto e generoso.

Mario Valenti: Inconsuetamente non direi. Abbiamo imparato bene a pesare il tempo passato insieme e sappiamo quanto l’altro possa darci delle risposte che non abbiamo, oppure semplicemente dire quelle che maggiormente ci piacerebbe sentire. È un tempo “spossante”, denso del momentaneo appagamento che possono donare le parole.

Ci sono poche domande che non hai fatto ed a cui mi sarebbe piaciuto rispondere. Fra queste, fra il serio ed il faceto, forse due. La prima e cioè quanto il giudizio dello sguardo altrui condiziona il nostro fare fotografico e in che misura cessa di essere terrificante e pietrificante e si trasforma in un qualcosa che riempie di senso le nostre immagini? E qui Sartre mi aiuterebbe quando dice che l’inferno sono gli altri, ladri quasi inconsapevoli di libertà ed insieme unica possibilità di salvezza dall’inferno stesso. L’altra, quanto i pensieri sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella produzione di immagini fotografiche, influenzano il tempo di permanenza dei biscotti nel latte, durante la mia colazione mattutina. A questa rispondo brevemente: poco. Pur rimanendo affascinato dall’esplorazione di sempre nuove possibilità operative, preferisco al momento stare alla finestra, guardando da lontano.

Grazie della possibilità che mi hai donato, mi è servita molto, più di quanto potessi pensare inizialmente. Ci vediamo al prossimo saluto al sole, da fare insieme.

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