VASCO ASCOLINI

        “il responsabile delle mostre in Valle, Janus mi spinse, visto il mio lavoro, a chiedere a Ernest Gombrich di scrivere per me un testo. Io lo feci e lui scrisse che ero un fotografo metafisico”

 

Angelo Zzaven: Caro Vasco, mi approccio a questa intervista con molto rispetto, tu sei un grande della fotografia, il tuo curriculum parla per te e io ho una grande stima, per l'artista e soprattutto per la persona che sei. Ti faccio la mia prima domanda che è anche una mia piccola curiosità, so che hai conosciuto Jean-Claude Lemagny curatore e storico di levatura internazionale, bella persona, purtroppo scomparso pochi giorni fa. L'ho stimato molto per i suoi formidabili testi su "Gente di Fotografia" e perché alcuni anni fa, ho ricevuto un gesto di estrema gentilezza da parte sua... ma questa è un'altra storia, ecco, vorrei chiederti in che circostanza vi siete incontrati? E se la vostra collaborazione riguardava un tuo lavoro?

Vasco Ascolini: Caro Angelo, ho conosciuto Jean-Claude Lemagny nei primi anni novanta, Avevo smesso di fotografare qui in Italia in quanto non mi venivano dati incarichi. Riuscendo a parlare il francese, scelsi come patria fotografica la Francia. Iniziai ad avere incarichi nei primi anni ‘90. Ad Arles andai per conoscere Michelle Moutashar, responsabile della fotografia al Museo Reattu. Lì erano nati, nel 1976 i Rencontres de la Photographie. La cercavo per mostrarle i miei lavori. Ebbi la fortuna di incontrarla in ufficio. Lei le guardo un paio di volte e mi chiese se lavoravo sempre con dei neri come quelli. Io dissi di si. Michelle allora, seduta stante mi diede l’incarico pagato. Cominciai subito a fotografare, la luce era quella giusta. Restai un settimana. Era il 1990. Poi tornai una seconda volta e alla terza consegnai oltre 50 fotografie cm.30x40, stampate da me ai sali d’argento. La MEP nello stesso anno mi comprò una decina di fotografie.

In seguito a Parigi, venni invitato dal circolo fotografico il cui presidente era proprio lui Jean-Claude Lemagny! Dopo le loro foto mi venne chiesto di mostrare le mie immagini cosa che feci. Lemagny si mise tra chi guardava, ma ogni volta che passava una mia fotografia, si alzava e poi le prendeva tenendole tutte sulle ginocchia. Finita la seduta, lui mi guardò e mi chiese che cosa avrei fatto la mattina dopo. Io dissi una passeggiata. Jean-Claude mi guardò e aggiunse che la passeggiata dovevo farla alla BNF (Bibliothèque nationale de France), al suo Ufficio perché sarebbero state bene lì. Mi fece vedere tutta la Biblioteca e il luogo climatizzato dove sarebbero state poste. Fu una grande amicizia. Nel 2011, al Mia di Milano, una Galleria di Lyon espose la mia serie di “Animali fantastici” Lemagny scrisse un testo straordinario, Fu una amicizia durata una vita, fino ad alcuni giorni or sono, nei quali ci ha lasciati per sempre.


Vasco Ascolini


Angelo Zzaven: Affascinante il tuo racconto, chissà quanti aneddoti potresti raccontarmi attraverso gli innumerevoli  incontri che hai avuto lungo la tua carriera, penso sia un elenco infinito; personaggi famosi e importanti del mondo della fotografia ma non solo, curatori, storici, responsabili di Musei, ecc... Mi racconti qualcuna di queste storie?

Vasco Ascolini: Ti parlo del mio primo contatto con il Giappone, in quanto nel 1980, io ero il fotografo ufficiale del Teatro Valli di Reggio Emilia. In quegli anni 1980/83 tutto il teatro giapponese antico venne a Reggio E. ad esibirsi. Lì incontrai il grande fotografo Eikon Hosoe. Gli feci arrivare una serie di mie foto di spettacolo che furono accolte alla Shadai Gallery di Tokio. Ancora nel 1980 spedii una serie di fotografie di teatro al Guggenheim Museum e una decina vennero tenute “ le conserveremo per il nostro archivio degli artisti”, firmato da Ward Jackson. Nel 1981 contattai Helmut Gernsheim, lo storico dell’arte che aveva ritrovato la prima fotografia realizzata, l'immagine di N. Niepce. Con lui nacque una vera e fraterna amicizia, fino alla sua dipartita... Lo andai a trovare a Castagnola, in Svizzera, gli donai una serie di mie immagini, che alla sua scomparsa, furono donate alla “ The University of Texas at Austin “ Corrisposi anche per anni con il Curator Roy Flukinger, Curator della Photograpy Collection di questa Università texana, dove viene conservata la prima fotografia in una specie di tempietto. Nel 1983 spedii una serie di fotografie di teatro giapponese al The Metropolitan Museum of Art. Di una decina che avevo spedito il Curatore alla fotografia, Weston J. Naef, Curator Depaterment of Prints and Photographas ne tenne 6 che erano dello spettacolo di Kemp. Nel 1983, dopo avere letto il libro di Ernet.H.Gombrich sulla fisiognomica, anche a lui spedii una serie di immagini riprese dallo spettacolo “Flower”. Dopo un mese di silenzio, il mio telefono squillò. “Caro Signor Ascolini, sono Ernst Gombrich...” Mi chiese, come se fossimo amici da sempre, mi disse se io e mia moglie potevamo incontrarlo a Napoli, dove era stato chiamato a fare uno stages. Questo gentiluomo mi accolse come fossi alla sua altezza e con grande generosità. Furono per me e mia moglie giorni straordinari. Pranzavamo con lui e la moglie all’albergo Santa Lucia, vista mare. Nel dicembre del 1983 scrissi al MOMA di N.Y. ed inviai una serie di 9 fotografie sul mimo Marcel Marceau che fotografai dalle “quinte”, immagini che tanti Musei mi hanno chiesto e dove ora sono conservate. Andarono anche all'Albert Museum di Londra, poi fecero un tour negli USA e nei grandi Musei statunitensi. Il prof. Italo Zannier lo contattai per avere un testo sulla mia fotografia di Teatro. Da quello i testi che scrisse per me furono tanti. Vivendo lui a Venezia e insegnando a Bologna i contatti erano facili e lui mi informava sempre prima. Mi aveva inserito anche nella sua Storia della Fotografia Italiana e in quella internazionale. Mi fece esporre alla Università Ca’ Foscari di Venezia, e prima al Teatro Verdi di Belluno, con un bel catalogo. Mi avvertiva di dove teneva conferenze ed io non ho mai mancato.

Angelo Zzaven: Vasco mi piacerebbe che mi parlassi dei tuoi inizi, della tua formazione, di come sei giunto al tuo modo di fotografare? Quali scuole o artisti ti hanno influenzato affinché maturassi il tuo personalissimo stile?

Vasco Ascolini: Sono giunto alla fotografia grazie ai circoli fotografici FIAF. In quei gruppi ho fatto particolare amicizia con Farri Stanislao. Nei pomeriggi andavamo per paesaggi di montagna, quando io vedovo una possibile fotografia, lui fermava la macchina, Tornava indietro, scendeva e guardava il cielo e mi diceva la luce non è buona e quindi torneremo tra un'ora, forse due. Tornavamo e la luce era buona, lui era di origini contadine, anche se faceva il tipografo. Io andavo da lui in camera oscura, mi insegnava tutto perché usare i filtri o non usarli. Lui usava pellicola kodak e io pure. Capii che per me era meglio un kodak 400 asa tirata a 1600 asa. Lui invece una 125 Asa e non la tirava. Usava spesso per i paesaggi una 6X9 e mi faceva guardare dentro dicendomi che davanti a noi nel vasto territorio c’era da fare una ottima fotografia. Io provavo a guardare tutto lo spazio e poi dicevo, per me è questa la buona foto. Lui aggiungeva. Si, buona, guarda cosa faccio, girava appena la macchina e la foto diventava più bella della mia, questo in tanti frangenti, nelle città, nelle architetture, insomma tutto quanto era fotografabile. Furono due anni che mi formarono. Ma io non feci mai paesaggi, ma lavorai in Teatro. Lui faceva still life io non lavoravo che per l’Arte. Mi fecero AFIAP da Ginevra. La scuola fotografica che segui fu quella francese. Mi influenzarono i fotografi che usavano stampare al nero, in seguito cercai uno stile tutto mio, personalissimo, al nero luce. Quando arrivai ad avere tutto nella mia mente andai in Francia.

 

Vasco Ascolini

 

Angelo Zzaven: L'architettura e la statuaria storiche sono state fondamentali per la tua fotografia metafisica, qual è stato il ponte che collega la pittura di De Chirico alla tua proposta fotografica?

Vasco Ascolini: Nel 1988 avevo avuto incarico di fotografare Aosta, fu il responsabile delle mostre in Valle, Janus che mi spinse, visto il mio lavoro, a chiedere a Ernest Gombrich di scrivere per me un testo. Lo feci e lui scrisse che ero un fotografo metafisico. Io precedentemente avevo molto letto storia dell’arte in quanto ero nella segreteria dell’Istituto Statale d’Arte di Reggio Emilia. La Biblioteca dell‘Istituto era piena di libri di Arte e tanti li avevo guardati e letti. Mi ero interessato a vari quadri sul surrealismo ed anche sulla metafisica. Capii che pur con evidenti contatti, erano diversi, quindi scelsi di interessarmi alla metafisica. Tornando a Giorgio De Chirico, capii che dovevo emulare la sua pittura attraverso la fotografia. Non paesaggi e non campagne. Ma Luoghi antichi, castelli ruderi, Dopo Mantova e Parigi I MONUM di Francia che fanno parte del Ministero della Cultura, mi diedero molti incarichi. Luoghi di grande fascino, Giardini con Ruderi e sculture antiche. Castelli con interni incantevoli. I giardini di Saint Cloud, poi Il Parco Reale di fronte al Louvre, Palazzo Reale. Les Tuileries, Arles... Si era sparsa la voce di come lavoravo metafisicamente. Anche i miei neri erano chiamati metafisici. Storici dell’Arte come Robert Pujade, Michelle Moutashar responsabile di tutti i Musei di Arles, Alain Charron, vice Direttore del Museo Archeologico della Provenza... Ma anche in Italia hanno scritto di me Arturo Carlo Quintavalle e Massimo Mussini. Mi considerano un fotografo che guarda alla Metafisica.

Angelo Zzaven: Il nero rappresenta la cifra stilistica indiscutibile della tua ricerca, fin dall'inizio. Come hai maturato l'idea di fotografare con questi toni cupi, dai forti contrasti e dai neri profondi?

Vasco Ascolini: Penso che il “nero”, nel mio percorso fotografico, mi arrivi da molto lontano, dai miei sogni, da quelli dell’infanzia. Da piccolo, a causa della guerra del 1940-45, io e mia sorella Lella di 12 anni, con la nonna Celerina, sfollammo a Fossoli di Carpi per sfuggire ai bombardamenti alleati di Reggio Emilia. Il campo di Fossoli era l’anticamera della morte x gli ebrei in attesa di essere deportati ai campi di sterminio in Polonia. La casa dei miei cugini era divisa dal Campo di concentramento e smistamento da un piccolo canale, la notte permetteva ai miei cugini e a me e mia sorella di scendere nel letto del torrente e di gettare pane bianco al di là dei fili spinati. Negli sprazzi di luce del campo, vedevamo ombre nere correre per raccogliere il pane. Tutto era al nero, stranamente quel buio mi faceva coraggio, pensavo di non essere visto dai cattivi, di notte io e mia sorella, con la nonna Celerina, dormivamo in solaio su sacchi ripieni di paglia e per i bisogni, al buio, avevamo un orinale ed era facile inciampare. Quando andavamo in fila nelle stalle di altri contadini vicini, tutto era in penombra; si stava in compagnia ascoltando racconti al buio, da qualche vicino che aveva imparato a leggere, stralci dall’Orlando furioso, dalla Secchia rapita o di racconti inventati. Chi raccontava era vicino ad una candela e nel momento più pauroso la spegneva e aggiungeva un suo grido per noi bambini terrificante. Ed era il buio. Ancora oggi io non dormo se non vedo uno spiraglio di luce.

Finita la guerra mi ero ammalato e andai da degli zii a Genova per avere aria buona. Per arrivare là si usava il treno. I primi due anni i treni raramente erano illuminati. Unica sicurezza era tenere la mano di mamma. La mia infanzia fu una infanzia al nero.

Il mio primo lavoro fotografico, fu al Teatro Valli di Reggio Emilia. All’inizio dello spettacolo il buio, per alcuni attimi, ti accecava, specialmente nella Tanztheatre di Pina Bausch, L. Kemp e Marcel Marceau... Maria Chiara Botti Fracchia, amica da sempre e conoscitrice profonda del mio lavoro scrive di me “Il nero del fotografo Vasco Ascolini “ abbraccia, avvolge, sfiora, accarezza, erompe e trasformandosi nella mirabile sintesi di tutti i colori, si fa nero”. Sempre dallo stesso scritto: Parrebbe che le foto “al nero” di Ascolini, con il loro fascino abbiano in loro stesse la vita perché è il nero, il suo nero che le trasforma donando a loro un'anima.

Vasco Ascolini

Angelo Zzaven: Vasco, so che il tuo impegno negli ultimi anni è calato parecchio, ma so anche che hai realizzato delle cose molto interessanti e sperimentali. Mi accenni qualcosa?

Vasco Ascolini: Non ho più fotografato dal 2017 ma non ho abbandonato la fotografia. Al Petit Palais di Parigi le immagini che ripresi nel 2016 furono in maggioranza piene di nero, sia luminoso, sia opaco. Scelsi di lasciare la grande vetrata piena di luce e scesi nell’interrato che avevo intravisto da una piccola finestra che in parte dava sul giardino. Si trattava di una luce fioca nella quale, reperti greci e romani, mi stavano aspettando. Mi fu chiesto se avevo necessità di più luce, ma io rifiutai. Quello che vedevano i visitatori era così. Con più luce avrei fatto delle false immagini.

Tornando al 2011 ebbi un testo da Lemagny sui miei animali fantastici. Sono trenta fotografie al nero. Mi fu chiesto da collezionisti perché non fotografai a colori. La risposta arriva da Lemagny stesso “ la spinta dell’immaginario fu tale da sovvertire tutte le certezze della tecnica... quella di un piano invalicabile che raccoglie passivamente gli effetti della luce, fece naufragio nelle onde profonde”. Nel 2013 venni chiamato dall’istituto Italiano di Budapest feci ancora opere al nero, nel Cimitero ebraico, in una giornata di triste e nera luce. Trucidati dai tedeschi e anche dagli ungheresi. Penso che se non mi fossi ammalato avrei continuato a fotografare e accettato altri incarichi al “nero”.

Angelo Zzaven: Mi incuriosiscono i lavori sperimentali, che realizzavi tramite interventi diretti sul negativo (bruciature, graffiature), che rivisitano il tema dell’onirico e del fantastico. Puoi parlarmene?

Vasco Ascolini: Nel 2000 decisi di prendermi un anno “sabbatico” e di lavorare in camera oscura, sperimentando alcune idee che avevo da tempo dentro me. Devo dirti che con l’arrivo del digitale praticamente tutti i “fotografi commerciali” aderirono a questo modo di ripresa e volevano disfarsi delle vecchie carte ai sali d’argento. Dopo Stanislao Farri ero forse il più anziano tra i fotografi reggiani. Li conoscevo tutti, li avevo portati con me ad Arles, e quindi mi donarono tutto quando era analogico. Mi feci dare anche sviluppi e fissaggi, in particolare quelli invecchiati. Da lettore incallito avevo letto un poco di tutto e tornai in libreria alla ricerca di libri sugli animali fantastici, in particolare per quelli descritti da L. Borges in “Manuale di zoologia fantastica”. I miei animali fantastici sono una sessantina e sono stati esposti, per la prima volta, nel 2007, per farli più stranianti feci loro un viraggio molto delicato con del Tè naturale. Nella bacinella feci in modo che le fotografie si toccassero in modo che il viraggio non fosse uniforme sulla carta fotografica, feci anche un secondo viraggio sull’azzurro per il lavoro titolato “Il Corpo offeso” ed anche “Inquietudini”. Poi cominciai, nel 2012 un lavoro utilizzando sviluppi scaduti, nella bacinella dello sviluppo mettevo la carta in quello nuovo per pochissimi secondi, poi la toglievo e sviluppavo la carta sensibilizzata con un altro sviluppo, ma scaduto. Attaccavo la carta ad un pannello di faesite liscia e cominciavo a spennellare con piccole pennellesse di circa 4 cm. Altre volte i negativi che usavo erano da me grattati con limette da unghie, martoriati con la cucitrice, tagliati con il cutter e anche bruciati, con fiammiferi, con la brace della sigaretta, (io mai fumato, ma mia figlia si) con le forbicine. Su di una fotografia che stava sotto l’ingranditore, quella di un danzatore, presi della carta che mia moglie usava per avvolgere alimenti, la spezzettai fine fine e poi la feci cadere a pioggia sul corpo nudo del danzatore. Quando la sviluppai era come se il danzatore fosse stato torturato e pieno di piaghe. Ora questa fotografia è alla Public Library di New York e riposa al Lincoln Center che le è connesso. Fa parte di una mia mostra fatta nel parmense e si chiama “Persistenze” Un mio omaggio a Francisco Goya e Odilon Redon e pensando anche al pittore Ensor.

 

Vasco Ascolini

Angelo Zzaven: Affascinante il racconto delle tue manipolazioni in camera oscura, emozionante il tuo impegno nella ricerca del bello. Che cos'è la bellezza per te?

Vasco Ascolini: Per motivi di malattie e di anni persi durante la guerra, sono stato di poche scuole. Per me fu importante il servizio militare che allora era di diciotto mesi e venti giorni. Ero stato scelto per la Scuola di Foligno dove feci il corso di sotto ufficiale. Per me fu una rinascita e, come da sempre, leggevo, leggevo, leggevo appena possibile. Era il novembre 1959 quando entrai nella Caserma scuola. Tornato a casa vinsi un concorso per entrare, come impiegato, all’Istituto d’arte Chierici di Reggio Emilia, mi occupavo di tante cose e in particolare della Biblioteca annessa. E di lì cominciò la mia passione per l’ arte. Quello che non trovavo lì lo cercavo poi nella Biblioteca cittadina. Mi chiedevo nelle mie letture che cosa era il “bello” nell’arte. Lessi di Aristotele, di Socrate e di Kant, avevo lasciato le scuole magistrali perché era necessario lavorare per la famiglia. Ma il filosofo che mi fece capire il senso del “bello” fu per me Kant. Lui scriveva “ Il bello non è una qualità oggettiva delle cose, non esistono oggetti belli di per sé, ma è l’uomo ad attribuire tale caratteristica agli oggetti”. A me bastava questo, anche se continuai a leggere... Nei miei lavori in Francia le mie scelte erano su quello che per “me” era “bello”.

Angelo Zzaven: Prima mi hai parlato del Giappone, del fotografo Eikon Hosoe, posso capire la tua infatuazione per la cultura di questo affascinante paese ma ho trovato curioso il tuo essere cintura nera nelle arti marziali... Mi racconti qualcosa su questa storia?

Vasco Ascolini: Ero un ragazzo di 16/ 17 anni che si portava dietro i disastri della guerra. Non voglio dire “scheletrico” ma magrissimo certamente. Allora giocavo a calcio ed ero bravo, mi avevano chiamato tra i ragazzi della Reggiana calcio, di Reggio Emilia, dove ero nato e dove vivevo. Mi ammalai e dovetti andare in sanatorio, tra le montagne degli appennini emiliani e li rimasi un anno e mezzo.Tornai guarito ma non ripresi il calcio, poi smisi.

Mi avvicinai al JUDO a Reggio Emilia, ma il servizio militare mi fece aspettare. Poi arrivarono i maestri giapponesi che per sopravvivere alla miseria dovuta alla guerra, calarono in Europa a fare gli insegnanti. Uno di questi era Tadashi Koike, un grande judoista, ma parlava poco e ci trattava con durezza. In Giappone i maestri delle arti marziali, avevano sempre una bacchetta di bambù e se gli allievi sbagliavano, li toccavano sulla spalla (eufemismo!!!...) Io feci tutta la trafila, arrivai alla cintura marrone, che precede la nera. Andavamo ogni anno a dei corsi estivi in luoghi molto belli e superai (come altri reggiani) le prove per diventare cintura nera secondo dan. Gli insegnanti erano tutti vecchi, ma bravissimi nella tecnica. Io non ebbi mai necessità di usare questa arma che poteva, per difesa personale, anche uccidere, con degli “atemi” (colpi inferti) in punti mortali dell'aggressore. Però devo dire che mi sentivo sempre tranquillo in qualsiasi ora e qualsiasi luogo. Ho anche insegnato ai bambini e alle ragazze un judo “pulito”. Poi arrivarono le gare e i genitori dei ragazzini che combattevano... Mi vergognai per come quei padri e madri incitavano alla cattiveria i loro figli. Dopo venti anni, lasciai il Judo e feci il Fotografo.

Vasco Ascolini

Angelo Zzaven: Vasco, tu sei una persona di grande esperienza, sicuramente lungo la tua vita hai dovuto affrontare e risolvere tanti problemi. Cosa ti senti di dire a un giovane che vuole avvicinarsi al mondo della fotografia?

Vasco Ascolini: I miei tempi erano molto diversi da quelli di oggi, non esistevano ancora i social e questo fa una grande differenza. Tra il mio modo e quello di oggi di accostarsi ai luoghi della fotografia importante c’è un baratro. Come contattare i dirigenti e non perdere tempo con quelli che ti chiedevano soldi? Questo era il problema. Anche allora quelli che ti chiedevano soldi lo facevano presentandoti un futuro di grandi successi... se pagavi, rischiavi di perdere il denaro in cambio del nulla... io scelsi la Francia.

Io ho avuto la fortuna di lavorare al teatro Municipale di Reggio Emilia che aveva un programma importante sia di Danza, sia di Prosa, sia di Concerti, Mimi, insomma tutto quello che è teatro. Poco ma mi pagavano...

Non esistono più le persone che aiutano senza pagamento. Per i luoghi della Fotografia professionale direi di scrivere e contattare personalmente. Prima di accedere alle grandi mostre nei musei importanti del mondo credo che oggi si debbano pagare importanti storici dell’arte. Sconsiglio di cercare solo in Italia.

Angelo Zzaven: Caro Vasco, la nostra chiacchierata volge al termine. Sicuramente ci sono tante cose che non ti ho chiesto, domande che magari avresti voluto che ti facessi, ecco, vorrei chiederti di rispondere a una domanda che non ti ho fatto. Ti ringrazio di cuore per tutto.

Vasco Ascolini: Caro Angelo perché non mi hai chiesto, perché ho scelto la via più faticosa nel mio percorso di vita e non la più facile, quella che ti fa diventare ricco economicamente, ti fa avere il percorso più agevole, quella che ti porta al compromesso e ti fa diventare ricco. Si, perché per essere ricco bisogna avere un cuore duro, la schiena curva, la mente scaltra e l’ubbidienza pronta. Direi anche sapere prevenire il desiderio di chi comanda. Quando arrivai a l’età maggiore, al servizio militare, nessuno voleva comandare un gruppo di giovani reclute arrivate dal meridione. Erano tutti analfabeti, rastrellati dai carabinieri che li intercettarono tra pianure e montagne, con le pecore al pascolo. Quando arrivarono e furono vestiti in divisa, non riuscivano a infilare le scarpe. I piedi erano una grande callosità. Nessun collega sergente come me, voleva comandarli. Io lo feci e fu amicizia e fiducia, io per loro e loro per me. Tornato in borghese, essendo la mia famiglia di pochi mezzi, andai a lavorare come aiuto magazziniere insieme ad altri, in un grosso supermercato di elettricità, e la paga era in base a quello che il padrone decideva. Se brontolavi, non prendevi neppure il poco. Mi ero fidanzato poco prima di fare il militare. Il nuovo lavoro era in una assicurazione vita, sapevo scrivere a macchina molto bene. Avevo imparato alla scuola Militare. Era il 1964. Ero entrato ad una scuola d’arte come magazziniere. Avevo anche la cassettina dei farmaci in caso qualche alunno si facesse male. Il Preside mi stimava e quando succedeva qualcosa io “tamponavo” le mancanze. Io ero presente per tutti, alunni poveri, alunni con tendenza alla droga, etc. Poi diventai anche fotografo del Teatro Municipale della mia città. Ma fui anche, insieme al mio Maestro Stanislao Farri, capace di crescere un gruppo di giovani fotografi, che riuscii a portare fino a Parigi, alla MEP ed anche ad Arles in Provenza ai RIP. I più importanti luoghi della fotografia europea. Farri è morto alcuni anni orsono a 92 anni, gli altri hanno avuto riconoscimenti ancora giovani, nessuno o quasi si ricorda di me. Ho 86 anni. Pochi si ricordano che li ho cresciuti. Ma io sono felice così, di essere stato dalla parte di chi aveva bisogno di esempi e di aiuti...

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