Umberto Verdoliva

Quando è necessario cogliere l’attimo è necessario essere veloce, attento, altrimenti lo perdi, quando invece ti rendi conto che il luogo può essere la quinta giusta per attendere che accada qualcosa d’interessante allora aspetto. Non ci sono regole, è qualcosa che percepisco al momento, spesso è la luce che mi guida come spesso è il flusso della gente oppure l’atmosfera che sento in città, una postura, delle ombre... delle luci fortissime”

Umberto Verdoliva - Photo Elisa Mariotti

Angelo Zzaven: Umberto, ci conosciamo, virtualmente, da parecchio tempo e ho potuto apprezzare il tuo lavoro di street photographer già nella prima parte di questo progetto, infatti ho inserito il tuo lavoro nel libro #leimmaginicheamo. Vorrei approfittare di questa intervista per conoscerti meglio... mi parli di te? Cosa fai nella vita? Come nasce la tua passione per la fotografia?

Umberto Verdoliva: Di solito, quando devo parlare di me in fotografia ho sempre difficoltà a rispondere a questo tipo di domande e capirai presto il perché. Lavorando per una grande impresa di costruzioni il “luogo del mio abitare” è sempre stato provvisorio. Sono nato a Castellammare di Stabia nel 1961 ed ho iniziato a lavorare a Napoli nel 1986, poi a Roma, a Pescara, a Mestre, a Treviso, a Prato, a Massa Carrara e in questi ultimi sette anni sono ritornato a Napoli/Pozzuoli. La mia famiglia mi ha sempre seguito in questi trasferimenti ma dal 2003 abbiamo deciso di stabilirci definitivamente a Treviso; pertanto, sono a tutti gli effetti un pendolare, ogni due settimane ritorno a Treviso per trascorrere il fine settimana e ripartire poi il lunedì mattina per Napoli.

La mia passione nasce per caso nel 2006, avevo già 45 anni, vivevo a Treviso e lavoravo a Mestre, mi fu chiesto di documentare con le fotografie l’avanzamento dei lavori e inoltre, spesso, accompagnavo in cantiere dei fotografi professionisti che avevano ricevuto incarico dai vari studi di progettazione o dalle imprese presenti alla costruzione per la realizzazione di libri fotografici con lo scopo di pubblicizzare le loro attività. Non sapevo nulla di fotografia e neppure ne ero attratto, ci sono volute delle coincidenze per avvicinarmi ad essa con un altro spirito. La fotocamera che l’azienda aveva acquistato è diventata in pratica mia e la usavo anche nelle passeggiate in città o quando con la famiglia si faceva qualche viaggio. Proprio una foto scattata durante la regata storica a Venezia fu notata da una mia amica che mi spinse a partecipare ad un concorso fotografico che inaspettatamente vinsi. Il giorno della inaugurazione dell’ospedale scattai una foto significativa che fu pubblicata sul gazzettino di Mestre. Ecco, da qui, piano piano, iniziò a crescere l’interesse verso la fotografia ma non sapevo assolutamente nulla né di tecnica e né di storia, autori e ambiente.

Il primo approccio all’arte fotografica è stato tramite il web, iniziavano a nascere i primi portali on line dedicati alla fotografia in cui appassionati pubblicavano le loro immagini per avere dei riscontri sottoforma di like, di consigli e di commenti da parte della comunità. Uno di questi portali si chiamava Maxartis, in quel portale sono passati tantissimi fotografi, alcuni di loro molto stimati anche oggi. Questa frequentazione sul portale per quasi quattro anni mi ha formato moltissimo, mi ha stimolato a conoscere lavori ed autori, mi ha spinto ad affrontare in maniera più consapevole la fotografia ma mi ha anche fatto rendere conto che il web ed ambienti come questi potevano essere uno strumento rischioso non solo per alimentare facilmente il proprio ego ma anche per chiuderti nelle visioni più apprezzate dalla comunità. Così ho iniziato ad allontanarmi da certe dinamiche ed ho provato ad utilizzare il web come strumento per approfondire ciò di cui mi sentivo attratto attraverso soprattutto libri fotografici, saggi e storie di vita dei grandi maestri, scoprendo che la fotografia poteva dare voce e forza a quello che hai dentro di te ma solo se ti mettevi in gioco, se provavi a chiedere a te stesso di più, se ti lasciavi impregnare da influenze diverse per filtrare e capire la tua strada.

Umberto Verdoliva

Angelo Zzaven: Mi sembra che nella “strada” tu abbia trovato la tua strada, scusa il gioco di parole, ma mi sembra che la street photography sia il naturale riferimento del tuo modo di fotografare. Come arrivi a questa metodologia? Quali sono state le influenze (se ci sono state), che ti hanno portato a questa scelta?

Umberto Verdoliva: Per me è stato naturale fin da subito fotografare in strada, le categorie le ho conosciute dopo dai portali sul web dedicati alla fotografia. Ho visto che le immagini degli utenti venivano catalogate per genere: Ritratto in studio, Paesaggio, Natura, Macro, Ritratti ambientati, Still life, Moda, Wedding photography, ecc., e così ho scoperto il termine urban street o street photography, genere in cui inserivo di volta in volta le mie immagini attendendone un riscontro dalla comunità. Non sono stato influenzato “dal cosa” fotografare, ho scelto fin da subito scene in cui l’uomo era il soggetto principale, non potevo fare altrimenti, vivevo in città e i miei incontri erano nell’ambito urbano, probabilmente il mio stile iniziale è stato condizionato da una serie di autori, tra cui Fan Ho e Ray K. Metzker su tutti, per la capacità di “giocare” con luci ed ombre. Aver visto i loro lavori mi ha senza dubbio influenzato stilisticamente nei miei primi passi in fotografia.

Angelo Zzaven: Che cosa pensi del momento decisivo di bressoniana memoria, è una tua modalità di lavoro o prediligi procedure più contemplative, facendoti coinvolgere da giochi di luce e composizione? Per te è importante la velocità di azione o il coinvolgimento emotivo basato sull'armonia e l'equilibrio della scena?

Umberto Verdoliva: Sono entrambe modalità che utilizzo, dipende dal luogo, dal momento, dallo stato d’animo, dal caso. Per me non esiste un modo migliore di un altro. Quando è necessario cogliere l’attimo è necessario essere veloce, attento, altrimenti lo perdi, quando invece ti rendi conto che il luogo può essere la quinta giusta per attendere che accada qualcosa d’interessante allora aspetto. Non ci sono regole, è qualcosa che percepisco al momento, spesso è la luce che mi guida come spesso è il flusso della gente oppure l’atmosfera che sento in città, una postura, delle ombre, altre ancora delle luci fortissime. Quello che m’interessa è realizzare fotografie che abbiano in sé una “forza” che arrivi all’osservatore con la stessa intensità con cui l’ho creata. La forza che cerco può spingere chi guarda in qualsiasi direzione, io provo ad indirizzarle verso la poesia, la bellezza, verso il documentare, verso la memoria, verso la sospensione dell’attimo, ma raggiungere l’obiettivo non dipende solo da me, ma anche dalla sensibilità di chi guarda l’immagine. Ho visto persone completamente indifferenti su alcune mie fotografie che viceversa avevano colpito ed emozionato tanti altri.

Umberto Verdoliva

Angelo Zzaven: Ho letto da qualche parte che preferisci lavorare in analogico, mi spieghi le motivazioni di questa scelta? In generale che cosa pensi delle moderne tecnologie applicate alla fotografia?

Umberto Verdoliva: Premessa: per me la fotocamera è solo uno strumento come un altro, una sorta di penna da utilizzare per scrivere qualcosa. I modelli e le marche esistenti mi sono completamente indifferenti. Sono conscio, comunque, che l’uso di una determinata fotocamera possa restituire un imprinting stilistico “particolare” rispetto ad un’altra; pertanto, opero di solito una scelta a monte in funzione di ciò che penso del lavoro da sviluppare. In questi anni ho avuto la possibilità di utilizzarne diverse: reflex, mirrorless, le punta e scatta a pellicola degli anni 80/90, la polaroid, il cellulare. Ho iniziato il mio percorso in fotografia con una fotocamera digitale che ha in pratica velocizzato e reso più immediato il mio approccio ad essa compreso la condivisione ma non appena mi sono reso conto di quello che avevano prodotto con strumenti analogici i grandi fotografi di un tempo, ho voluto provare anche io ad usare la pellicola.

Così ho compreso che cogliere attimi con una fotocamera analogica è molto più difficile, non c’è la raffica di scatti come in quelle digitali, non hai la possibilità di vedere subito se hai colto il momento come volevi, inoltre, la fotocamera digitale ti spinge a scattare di più, è un impulso incontrollato, cosa che difficilmente avviene con quella analogica dove sei portato a pensare maggiormente e, di uno stesso momento, viceversa fai pochi scatti. Questo processo di “cattura” mi mette in condizioni di essere più attento e di vagliare bene cosa fotografare e come farlo. Mi mette in condizione anche di “incontrare” l’altro, ma anche il luogo, con più profondità e con meno superficialità, è uno studio meno superficiale del momento che con la digitale trascuri. Poche ore con una fotocamera digitale al collo e torno a casa con centinaia di scatti mentre, con quella analogica, un rullino da 36 pose mi dura anche un paio di settimane. Così ho trovato la mia naturale predisposizione alla pratica fotografica in una Nikon FM2n analogica completamente manuale con due tipi di obiettivi fissi, un 35 e un 50 mm, fotocamera che porto sempre con me dovunque io vada.

Un’altra differenza notevole la trovo nel prodotto finale, cioè la stampa. Secondo me non c’è paragone tra una stampa a getto d’inchiostro, anche di grande qualità, e una ai sali d’argento su carta baritata, questo è uno dei motivi per cui ho scelto di continuare con l’analogico affascinato dal prodotto finale, dalla materia, dalla bellezza della grana e dai tempi di attesa nello scoprire i negativi sviluppati. Altresì, sono affascinato “dall’errore fotografico” che con la pellicola è molto più probabile accada sia in fase di scatto che di sviluppo e stampa. Amo l’errore incontrollato che viene fuori dopo aver sviluppato il negativo, in quest’ultimi anni a volte lo cerco di proposito. Una immagine sfuocata oppure una esposizione sbagliata o un mosso non voluto spesso si tramutano in elementi fondamentali di grande fascino nella riuscita delle immagini, come anche la differenza tra il “ricordo di ciò che hai scattato e quello che invece è stato effettivamente impresso”, c’è sempre una “sorpresa” che spesso diventa mutevole. Mi spiego meglio. A volte, vedendo il negativo sviluppato, ho la sensazione immediata di aver scattato qualcosa di sbagliato ma dopo un po', nel tempo, inizio ad apprezzarlo e a comprenderlo meglio. Questa cosa mi accade solo con la fotografia analogica e chiaramente mi riempie di gioia.

Scegliere la foto da presentare o da stampare è per me un secondo scatto, quello definitivo, perché solo riguardandole nel tempo ho la piena consapevolezza di ciò che ho colto rispetto al momento dello scatto e, il tempo, appunto, in questo processo ha un ruolo fondamentale, non sempre comprendo immediatamente la forza dell’immagine scattata e spesso è necessario che essa sedimenti insieme al suo ricordo. Queste sensazioni non le provo fotografando in digitale, dove accumulo centinaia di immagini di difficile archiviazione e poi ricerca che possono spesso confonderti e rendere caotico un processo che invece è necessario sia ponderato e sedimentato senza alcuna fretta.

Per rispondere alla seconda parte della tua domanda, vorrei capire meglio cosa intendi per nuove tecnologie, io amo soprattutto il processo classico fotografico e la fotografia così come è nata, per me la fotografia è quella, certo ci sono artisti che si esprimono modificando digitalmente le immagini ma io non faccio parte di questo modo di pensare anche se riconosco, possono nascere cose interessanti e valide.

Umberto Verdoliva

Angelo Zzaven: Vista la tua predilezione per il bianco e nero, pensi sia la maniera più efficace per raccontare la fotografia di strada?

Umberto Verdoliva: Assolutamente no, per me non ci sono regole sulla efficacia o meno della fotografia di strada attraverso il bianco e nero oppure con il colore. Credo sia molto più importante capire come esprimersi con consapevolezza. Bisogna chiedersi se la scelta del BN oppure del colore sia stata fatta senza alcun condizionamento, se è effettivamente sentita… è necessario comprendere qual è per te il linguaggio giusto per le cose che vuoi dire o trasmettere, ma la cosa più importante è il contenuto. La mia produzione è quasi esclusivamente in bianco e nero ma non ho ripudiato il colore, anzi, ci sono delle cose che lascio a colori perché le vedo così, funzionali a ciò che voglio dire. Io vedo solo fotografi consapevoli e fotografi che ancora non si sono compresi appieno dove basta un piccolo dubbio per fargli cambiare idea.

Angelo Zzaven: Le immagini che accompagnano questa intervista fanno parte della serie “The time of the moments”, istanti significativi che raccontano in un'immagine una storia. Storie che coinvolgono ed emozionano, me ne parli?

Umberto Verdoliva: Sedimentare un liquido in fisica significa attendere il depositarsi sul fondo di piccole particelle per depurarlo. Lo stesso processo in fotografia lo mette in atto il tempo, depura gli attimi colti con una fotocamera, li ripulisce dalla spinta dell’istinto e li elabora poi in funzione di un racconto.

Fotografare a “memoria” può risultare un esercizio molto difficile, quasi impossibile, fotografare ciò che vedi è un atto, viceversa, immediato mosso da motivazioni più o meno impellenti, ma lasciar sedimentare nel tempo la fotografia vuol dire trasformarla nella sua essenza, modificarla per attribuirle significati diversi.

C’è tale concetto alla base del mio progetto, immagini che ho colto inconsapevolmente e che dopo dieci anni stavo cancellando per far spazio in archivio. Per puro caso le ho lasciato alterare dal tempo, tenendole chiuse e dimenticate per anni nel mio hard disk. Immagini scattate con una piccola compatta digitale. Quando mi sono accorto di avere delle fotografie istintive, casuali, non necessariamente scattate per un qualcosa, molto lontane dalla fotografia che fino ad allora avevo presentato ma che in qualche modo riconoscevo come filo conduttore del mio pensiero, ho riflettuto molto riguardo a cosa avevo cercavo fino ad allora ed ho finalmente compreso tutto il mio fare. È molto importante per me questo lavoro, mi ha permesso di cambiare, dare una svolta al mio pensiero riguardo la fotografia. Uno sguardo che prende improvvisamente una direzione diversa dopo dieci anni, da ciò che sentivo nel momento della “registrazione” dove solo la rielaborazione, il dare forma ad un contenuto precedentemente elaborato, può far assumere un nuovo significato.

Cogliere e lasciar sedimentare sono entrambi atti legati al vedere, molto importanti, il tempo cambia l’immagine sia in sensazione e sia in racconto allo stesso autore, per trasformarsi ancora in chi osserva. Allo stesso tempo, suggestioni, vibrazioni ma anche rumori, odori e luoghi dimenticati rivivono nuovamente in te. Il tempo degli attimi è un viaggio nella memoria che non solo ha la funzione di “ricordo” ma anche la speranza di coinvolgere, trasferendo impulsi e sensazioni intime, irreali, personali, gli osservatori.

Umberto Verdoliva

Angelo Zzaven: Questo discorso di posticipare il momento della fruizione legata al ricordo dal momento contingente ed emozionante dello scatto, mi incuriosisce e allo stesso tempo mi fa pensare. Il passare del tempo, di parecchio tempo, ci cambia e cambia quello che ci coinvolge e scuote... se guardo alcune mie immagini del passato, oggi, rimango perplesso, le sento lontane, e come se vedessi un me stesso acerbo, meno consapevole... forse collego il significato delle cose in un tutt'uno col significato del mio “essere”? Come la vedi?

Umberto Verdoliva: A me, invece, ha sorpreso riguardare le mie prime foto, quelle dove non avevo ancora ben chiaro cosa fosse la fotografia per me. Mi sono riconosciuto ed ho trovato punti in comune con le cose che stavo realizzando. Ho riflettuto su cosa inizialmente mostravo. Una idea di fotografia dove la pulizia compositiva, l’estetica, le forme erano la parte predominante mentre in quella che inconsapevolmente facevo e soprattutto mai pensavo di mostrare, perché sporca, non in linea con dei canoni che per qualche motivo mi erano stati di riferimento, possedeva all’interno quel sentimento che effettivamente provavo ma non riconoscevo in quel tempo, ci sono voluti anni per riconoscerlo.

Difficile da spiegare, ma nel momento in cui ho capito che per realizzare qualcosa di veramente mio, era necessario fotografare senza condizionamenti alcuno, senza stili da seguire o riferimenti vari, ma assolutamente libero. Oggi così fotografo, così racconto di genti, di luoghi, di strade con una consapevolezza e una sicurezza tale da restarne meravigliato. Fotografare in questo modo mi gratifica, mi stimola continuamente a scoprire cose intorno a me e a coglierne l’essenza. Contemporaneamente fotografo Napoli, Venezia, le strade sotto casa, le cose del quotidiano così come penso debbano essere raccontate senza preoccuparmi più di mantenerne una linea rientrante in quello che tutti si aspettano…e, facendo proprio così, alla fine acquisti una tua riconoscibilità, a volte, unica.

Umberto Verdoliva

Angelo Zzaven: Sono d'accordo... bisogna liberarsi da condizionamenti e stilemi, restare fermi a metodologie e regole didattiche, o peggio a condizionamenti stilistici più subdoli che si sono formati nella nostra testa, frena la nostra libertà creativa e la nostra completa maturazione espressiva... Bene, vorrei farti un'ultima domanda... mi piacerebbe sapere su cosa stai lavorando o su che cosa ti piacerebbe lavorare in futuro. Hai dei progetti nel cassetto?

Umberto Verdoliva: Sono oramai più di sei anni che per lavoro sono ritornato a Napoli, città lasciata sempre per motivi di lavoro a trent’anni. Fotografo dal desiderio di raccontare la città alle mie personali sensazioni vissute in questo periodo dove le vicissitudini lavorative e parlo di fallimento societario, disagio per la lontananza dalla famiglia, incertezze lavorative e problemi di salute si sono intrecciate tra loro in un luogo che mai avevo completamente compreso e accettato. Quindi ho accumulato tantissime immagini che potrebbero raccontare la città in tanti modi diversi. Sto riflettendo come trovare il filo conduttore di una storia a livello personale molto difficile dove città, genti ed io ci intrecciamo provando a trasferire a chi guarda il lavoro quella sorta di disagio profondo che ho avuto io in questi ultimi anni a stare qui. È un lavoro in progress su cui sto cercando punti di riferimento che mi possano aiutare a trovare il bandolo della matassa. Spero ne possa nascere un libro, ci terrei molto a definire questo periodo con una pubblicazione chiusa e mirata.

Angelo Zzaven: Ti auguro tantissimo che tu possa realizzare questo meraviglioso progetto... Umberto, la nostra chiacchierata volge al termine, come faccio sempre ti chiedo di rispondere a una domanda che non ti ho fatto. Ti ringrazio per la pazienza e la disponibilità.

Umberto Verdoliva: Io penso che la nostra intervista sia stata ricca di spunti e di stimoli sia per noi e sia poi in chi leggerà. La domanda non fatta la lascerei così, come spinta ai lettori per approfondire, qualora ne sentissero la necessità, la mia fotografia. Ti ringrazio tantissimo per queste domande interessanti, per lo spazio che hai voluto donarmi, per aver apprezzato la mia fotografia.


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