Giuseppe Casaburi

 “Tempo fa stavo fotografando una sconosciuta, era un lavoro per un gruppo di avvocati, scattando e cercando l’immagine che potesse dare l’idea di quella persona, la tizia guardandosi nelle foto fatte si odiava... le ho detto che anche io mi odiavo, che anche io non vengo bene nelle foto e per questo faccio foto e non mi fotografo, anzi odio i fotografi e quello che fanno; poi le ho chiesto: ma lei li odia gli avvocati? E ci siamo abbracciati, poi ho scattato un paio di foto ed erano perfette”

Giuseppe Casaburi (Autoritratto)

Angelo Zzaven: Giuseppe, sebbene ci conosciamo da parecchi anni, mi rendo conto di non conoscere i tuoi inizi e lo sviluppo della tua carriera fotografica. Solo negli ultimi anni, attraverso i social ho avuto modo di apprezzare la tua bravura e la tua creatività. Mi parli di te? Chi sei, cosa fai, come hai scoperto la fotografia e com'è diventata la tua professione?

Giuseppe Casaburi: Ho iniziato a 16 anni, scattando, sviluppando e stampando le mie foto in bianco e nero, più o meno nel '79, sin da subito con la fotografia ci campavo, stampavo b/n nel retrobottega di un negozio storico di fotografia il pomeriggio quando uscivo da scuola.

Adesso non stampo più bianco e nero, forse non ci penso nemmeno più in bianco e nero, era un'epoca diversa, più lenta, avevamo il tempo di pensare perché da ragazzi ci si sente immortali, anche al tempo. A cinquant’anni ho iniziato a fotografare fiori recisi perché a cinquant’anni sono la cosa più vicina ai cinquant’anni. Nel mezzo mi sono occupato di fotografia pubblicitaria, nel senso che campavo facendo foto per la pubblicità, un tempo detta “Réclame” le mie foto pubblicitarie venivano stampate e attaccate sui muri in tutta la Sicilia e nei giornali nazionali per almeno un decennio o forse più.

La mia è una fotografia iconico-sociale, anzi elementare a tratti alimentare. Ho fermo il ricordo di quando alle elementari guardavo ipnotizzato i “quadri” affissi in aula che raffiguravano la N di nave, la I di imbuto, la F di fiore, facili immagini che aprivano alla costruzione di tutte le frasi e i pensieri possibili. Ecco, adesso la mia fotografia è esattamente così.

Angelo Zzaven: Ecco! Mi parli di fiori recisi, dei tuoi cinquant'anni e allora mi incuriosisci e prima di parlare della tua professione, delle tue splendide immagini pubblicitarie, vorrei che approfondissi questa storia dei fiori recisi. Me ne parli? Qual è l'idea che sta alla base di queste immagini?

Giuseppe Casaburi: Più che un’idea è uno stato d’animo quasi una necessità, esprimere attraverso una composizione di semplici elementi un sentimento o qualcosa che porta a quell’equilibrio li.

Il sentimento è l’equilibrio della passione. Tocco e gioco con i fiori o gli acini d’uva come un tempo si giocava con i giocattoli facendogli fare delle azioni che sono nella mia testa e forse ogni tanto continuano nella testa di chi guarda, ma è più difficile.

Giuseppe Casaburi

Angelo Zzaven: Questi giochini che tanto giochini non mi sembrano, mi parlano di te della tua creatività, della tua capacità di saper accostare elementi a volte inusuali, nelle tue riprese di still life, attitudine spesso fondamentale nel tuo lavoro. Che ne pensi?

Giuseppe Casaburi: Sfondi una porta sfondata, mi sono rotto di vedere laccate rappresentazioni di piatti non mangiati, chef fotografati come rappresentanti di stato, o modelle varie che girano su se stesse toccandosi i capelli con fare civettuolo. L’immaginario collettivo della fotografia pubblicitaria è staticamente fermo al secolo scorso. Nel mio piccolo anzi piccolissimo ci provo a disavvezzare il prodotto e la sua ovvia immagine ma spesso mi vengono proposti come “brief” feed di Instagram da usare come ispirazione... insomma sono rarissimi i clienti con cui creare uno stile che ci appartiene, quando capita è amore.

Angelo Zzaven: Bene, questo amore, dici scattato poche volte, ti avrà comunque ricompensato di qualche sacrificio fatto... Mi parli di una delle esperienze più positive e degli eventuali aneddoti ad essa legati?

Giuseppe Casaburi: Tempo fa stavo fotografando una sconosciuta, era un lavoro per un gruppo di avvocati, scattando e cercando l’immagine che potesse dare l’idea di quella persona, la tizia guardandosi nelle foto fatte si odiava, era un continuo: nooo no no, non vengo bene nelle foto ecc ecc, le ho detto che anche io mi odiavo, che anche io non vengo bene nelle foto e per questo faccio foto e non mi fotografo, anzi odio i fotografi e quello che fanno; poi le ho chiesto: ma lei li odia gli avvocati? E ci siamo abbracciati, poi ho scattato un paio di foto ed erano perfette. Questo è bello.

Giuseppe Casaburi

Angelo Zzaven: Essere un bravo fotografo forse significa anche essere un buon psicologo? Quanto è stato importante questo aspetto nella tua professione?

Giuseppe Casaburi: Siamo tutti “casi umani” io sicuramente, nella fotografia commerciale questo aspetto è da considerare giornalmente, nella fotografia di ricerca il fotografo è davanti (o dietro) se stesso con una pratica a tratti onanistica, nel commerciale è da capire subito che faccia ha un prodotto, e che faccia creda che abbia il suo prodotto il cliente. Che faccia ha un soggetto, e che faccia crede di avere quel soggetto, trovare quella chiave apre poi la porta del bonifico a saldo.

Angelo Zzaven: Tutte le cose hanno una faccia fotogenica, quella faccia che ogni fotografo cerca, non perché sia la più bella in assoluto ma perché è quella che si avvicina alla nostra sensibilità. Ti è capitato qualche oggetto difficile che ti ha fatto penare?

Giuseppe Casaburi: Odio fotografare gli argenti, la roba d’argento in realtà è visibile in base al suo riflesso, se riflette troppo sembra smalto se lo lasci al nero ti scordi che è argento, ma queste sono quisquilie tecniche, non credo importi a qualcuno. In genere il soggetto difficile non esiste solo se è sormontato da enorme pazienza. Ricordo una storia era luglio del 92 del secolo scorso, primo lavoro per un'agenzia importante, ero stato indicato dal cliente (ero giovane e costavo poco) il cliente una industria farmaceutica. L'art aveva inventato un visual che prevedeva che un nastro di cerotto assolutamente appiccicoso facesse morbide curve sospese dal fondo, a toccarlo rimanevi incollato non era facile maneggiarlo. Scattavo in pellicola e banco ottico Sinar 4x5”, non esisteva nemmeno lontanamente la post-produzione, ho cosparso di talco il cerotto e gli ho fatto fare quello che doveva fare.

Giuseppe Casaburi

Angelo Zzaven: Le immagini che ho scelto per accompagnare questa intervista non sono immagini pubblicitarie, ma immagini rubate dai tuoi siti, giochi di still life, fiori recisi, acini d'uva, ecc., spesso immagini curiose, spiritose, che parlano di te e del tuo modo di essere, meglio di tanto altro. Vuoi aggiungere qualcosa?

Giuseppe Casaburi: Credo che parlare delle proprie opere sia un'ammissione che da sole non parlano, spero di non parlare.

Angelo Zzaven: Nella vita di tutti i giorni ti capita di fotografare solo con gli occhi? Se si, come ti poni nei confronti di questi istanti?

Giuseppe Casaburi: Godo a fotografare con gli occhi e a tenere per me questi istanti, istanti che è come se si ingrandissero e diventano appaganti anche per buoni 10 minuti. Poi la vita ricomincia e lo scanner della cassa fa beep uniformemente. Comunque devo dire che quando li vedo questi istanti e prendo la macchina fotografica, l’ottica è sempre sbagliata, o ho obiettivi sbagliati o il mio me che guarda è a una distanza diversa, devo approfondire questa cosa.

Angelo Zzaven: Escludendo il momento in cui ricevi i pagamenti a saldo, quale parte del tuo lavoro apprezzi di più?

Giuseppe Casaburi: Quando riesco a creare un’immagine (è un controsenso della sfera reale, lo so) non sono pittore e nemmeno cacciatore di momenti rubati, quindi per “rappresentarmi” devo trovare elementi (soggetti) reali che passando dalla mia testa diventano poi forse, rappresentazione del mio (semplice e a tratti banale) pensiero. Sembra una cazzata ma è uno sbattimento serio, il fotografo (alcuni fotografi) sono strumento del concetto immaginario che poi si manifesta, senza apporre colore, pigmenti, senza togliere materia, senza effettivamente fare nulla tranne che scattare.

Giuseppe Casaburi

Angelo Zzaven: Quale campagna pubblicitaria famosa avresti voluto firmare se ne avresti avuto la possibilità?

Giuseppe Casaburi: Ho amato le pubblicità della Polistil frammenti di modernità assoluta stampati nell’ultima pagina di Topolino, poi da grande ho cercato chi fosse quel (per me) genio assoluto e ho scoperto Gianni Sassi e ho capito che quelle immagini pazzesche (Paola Pitagora fotografata come una macchinina sul tappeto), un proiettore super8, gli album degli Area, e la parte più bella: la foto di Battiato per i divani Busnelli, erano le immagini che volevo vedere.

Angelo Zzaven: Che cosa consiglieresti a un giovane che vuole fare il tuo lavoro? Quali mosse ritieni più appropriate?

Giuseppe Casaburi: Ottime scuole, e poca calia (calia, dal siciliano - marinare la scuola), conoscere per lo meno il nome delle cose e dei soggetti prima di iniziare a fotografarli, ogni cosa ha un’anima o una serratura da aprire, un cibo ha un punto in cui inizieresti a dargli un muzzicuni (morso), ecco li ci metti il fuoco e il centro ottico.

Giuseppe Casaburi

Angelo Zzaven: Giuseppe, la nostra chiacchierata volge al termine... come faccio sempre, vorrei che rispondessi a una domanda che non ti ho fatto. Ti ringrazio per la cortesia e la disponibilità.

Giuseppe Casaburi: Sei contento della tua vita lavorativa? Della tua professione o come la vogliamo chiamare?

Si abbastanza, ho fatto ma avrei potuto fare di più, mi applico ma non abbastanza e cose cosi, e poi a cinquant’anni ho scoperto che mi piace scattare seduto, in poltrona, una sedia meglio se con le ruote, hai quella visione da spettatore che in foto guadagna ;)


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