Enrico La Bianca

 “Nella mia idea di produzione fotografica il principio che mi ha sempre guidato è la stampa. Il prodotto finale, un libro se si tratta di un progetto, o la stampa singola da appendere o comunque da toccare fisicamente. Gli hard disk moderni mi inquietano, mi sembrano dei buchi neri dentro i quali può sparire tutto da un momento all’altro! Quando non è possibile stampare e pubblicare un libro, perché è costoso o non c’è un editore o altro, allora mi costruisco da solo, se ne vale la pena, il mio libro”

Angelo Zzaven: Enrico, per iniziare vorrei che mi parlassi di te: dove abiti, cosa fai nella vita, come nasce la tua passione per la fotografia?

Enrico La Bianca: Intanto voglio ringraziarti per questa chiacchierata fra amici ed appassionati della fotografia. Oggi abito a Piazza Armerina ormai da 15 anni. Ma sono di Enna dove negli anni 70 facevo il fotografo per una cooperativa teatrale. Mi ero costruito un piccolo studio a casa dei miei genitori e facevo i ritratti ad amici e parenti con una vecchia Kiev 80 russa. Stampare era un problema perché bloccavo il bagno ed a casa mia non ero molto sopportato durante le sedute di stampa!! Adesso sono un pensionato e la fotografia impegna quasi tutto il mio tempo. E ne sono felice.

Angelo Zzaven: … quindi un bel problema per la tua famiglia, sicuramente ti sarà capitato di rovinare parecchie stampe per urgenze non procrastinabili... scherzo, come sei arrivato alla cooperativa teatrale, avevi fatto degli studi specifici?

Enrico La Bianca: No Angelo, non ho fatto studi specifici. Io sono un autodidatta. Il fondatore della cooperativa, Antonio Maddeo, era un grande regista cinematografico e fu lui ad avviarmi alla fotografia dopo avere visto qualche mio scatto giovanile. Ebbe fiducia in quel giovane “disordinato” ed iniziò una collaborazione che durò sino a quando lui fu in vita. Poi la cooperativa teatrale si sciolse. Allora pubblicai il mio primo reportage fotografico su una rivista D’arte che si chiamava “Cartagine “ Fondata da un gruppo di artisti emergenti nisseni. Il reportage riguardava gruppi di teatro di strada che si esibivano durante la rassegna internazionale che si chiamava “Incontroazione” voluta appunto da Antonio Maddeo. Una cosa davvero all’avanguardia per allora.

Enrico La Bianca

Angelo Zzaven: Mi puoi parlare della tua formazione visiva, quali artisti, non necessariamente del mondo della fotografia, hanno influenzato il tuo modo di vedere?

Enrico La Bianca: Agli inizi fui attratto dalla composizione di Cartier Bresson, dalla spontaneità di Doisneau, dai racconti di Koudelka e dall'impegno di Salgado. Tutti reportagisti quindi. In Italia seguivo Paolo Monti e le sue sperimentazioni e Ugo Mulas con le "verifiche" che non capii subito. Molto intellettuale il suo lavoro. Lo stesso Ghirri mi piaceva per l'essenzialità e quotidianità dei soggetti fintamente banali, ma anche lui troppa testa. In Sicilia mi piaceva la fotografia di Sellerio ed il primo Scianna. Con il tempo sono diventato più flessibile culturalmente e trovavo forti stimoli in Robert Frank e William Klein. Su tutti c'è sempre stato Mario Giacomelli, che tutt'ora mi influenza. Dopo un passaggio per Ackerman, Petersen e D'Agata, mi sono avvicinato alla fotografia giapponese di Moriyama e Masahisa Fukase e del suo "Raven". Capolavoro. Mi piace Trent Parke e Sergio Larrain. Seguo in generale tutta la post-fotografia descritta da Joan Fontcuberta nel suo "Furia delle immagini". Troppa roba, lo so, ma io ho cicli ed alterno le mie scelte e le mie influenze in base al mio stato d'animo. Fuori dalla fotografia ho avuto influenze dalla pittura di Hopper per le sue luci e gli ambienti, Piero Della Francesca per la sua composizione e prospettiva, De Chirico per la sua metafisica e Rotko soprattutto quando fotografo il mare; in letteratura da Garcia Marquez; ed in musica dalla musica dei Sigur Ros e Jan Garbarek. Sembra uno sfoggio di cultura ma sono cose che si sono inserite nella mia vita gradatamente, senza bulimia culturale.

Angelo Zzaven: Tante influenze, tante contaminazioni che individuo in alcune tue creazioni. Hai sondato in lungo e in largo autori che hanno fatto la storia della fotografia. Come arrivi oggi a definirti, tra l'altro, “ fotografo senza macchina fotografica”, che cosa intendi realmente, mi chiarisci questo concetto?

Enrico La Bianca: Premetto che sono un amante del mezzo fotografico. Possiedo molte macchine anche prestigiose, ma questo appellativo è venuto fuori quando ho descritto il mio ultimo progetto "Collage" cominciato nel 1990 ed andato in pubblicazione autogestita solo nel 2022. Nelle note d'autore mi definisco "fotografo senza macchina fotografica" perché non avevo usato nessun mezzo ma solo forbici e colla. Ma già nel 2018 nel lavoro "I Fogliacci" avevo fatto una pubblicazione ricavata dal caso che nelle prove di stampa del mio libro "Sulle ali della Farfalla", un reportage per una ONG in Africa (Zambia) editato da Gente di Fotografia, aveva mischiato mie immagini con quelle di altri autori che la tipografia Aiello e Provenzano di Bagheria stava pubblicando. Ne sono venute fuori immagini "terze" di cui io mi sono accorto e che ho riunito e pubblicato: Quindi senza uso di mezzo fotografico. Nel 2020 decisi di fare un progetto di street Photography sull'identità degli abitanti di Tokyo, usando Google Map e il suo strumento "Street View". Facevo screen shot, e qualche raro scatto allo schermo, ed ho composto e pubblicato "Identity" anche questo pubblicato da Gente di Fotografia e senza l'uso di mezzo fotografico. Ultimamente ho partecipato per Hangar Fotografico ad un progetto sul libro " Piccolo Principe " e tutto il lavoro, che sarà stampato, è stato fatto usando una fotocopiatrice; niente mezzo fotografico. Ecco perché mi sono definito "fotografo senza macchina fotografica". Non certo per rinnegare il mezzo, che come ho detto, adoro, ma semplicemente per chiarire che si possono produrre progetti anche senza il mezzo specifico. Tutto qui.

Enrico La Bianca

Angelo Zzaven: Quando invece sei impegnato in progetti che implicano l'utilizzo di una fotocamera, di quale attrezzatura ti servi, e perché?

Enrico La Bianca: Quando faccio reportage, di solito uso il digitale (tranne casi particolari quando uso la leica M6), soprattutto se prevedo poca luce e parecchio movimento. Uso invece spesso l’analogico, 35mm o medio formato, se devo fare un lavoro più lento e meditativo come il paesaggio o lo still life e se io sono di buon umore e carico. Se sono spento il digitale, ma sarà difficile portare a casa qualcosa di buono! Poi adoro, come hai visto nella mia mostra, la Polaroid. Ho una vecchia SX70 e la uso compatibilmente con le mie risorse economiche da pensionato. (Stesso discorso per la pellicola).

Angelo Zzaven: A proposito della tua mostra, vero contenitore di creatività, ho apprezzato molto il lavoro in polaroid “Dove finiscono le cose quando le cose finiscono?”. Sono di questo progetto le immagini che ho scelto per accompagnare l'intervista. Me ne parli?

Enrico La Bianca: In origine questa frase è venuta fuori in relazione ad un progetto che riguardava i vecchi fabbricati, soprattutto rurali, che dopo la riforma agraria in Sicilia furono abbandonati dai contadini, ma anche ruderi in genere dove erano passate le storie degli uomini e delle donne che vi avevano vissuto e dei quali si era perduta la memoria. Il tempo è sempre stato al centro della mia attenzione, e con esso anche la memoria. Cerco sempre, con la mia fotografia, di evitare di dimenticare. "...La memoria è il portato di esperienze che concorre a definire la nostra identità personale e collettiva..." Scrive Giuseppe Cicozzetti su Scriptphotogaphy parlando del mio lavoro "Dove finiscono le cose quando le cose finiscono?" Riprendo il tema utilizzando la Polaroid SX70 e lo svolgo sotto due aspetti. Il primo relativo a quello originario dei ruderi ed altri luoghi abbandonati, spesso ri-fotografando con la mia SX70 le mie stesse fotografie proiettate; Il secondo perché utilizzando la Polaroid, le cui pellicole per un lungo periodo erano sparite e la fabbrica Polaroid chiusa, mi è sembrato coerente parlare di come le cose finiscono, utilizzando un mezzo come la Polaroid appunto non più prodotto sia come macchina che come pellicole. Da Qualche anno la polaroid ha ripreso a riprodurre macchine e pellicole ed il mio lavoro è potuto ricominciare. Quindi le cose finiscono, si perdono, e qualche volta ritornano. Come i ricordi, come le memorie dei luoghi che parlano della storia delle persone che vi hanno vissuto. In più, con le pellicole polaroid scadute che ritrovavo nel web prima della riapertura della fabbrica, mi è capitato di avere parti del supporto dove lo sviluppo non ha funzionato e l'immagine veniva fuori con zone non registrate. Lì sono intervenuto spesso io con colore, o col mio pirografo per affermare, primo la mia autorialità (pettinamento dell'ego!!), e secondo per ribellarmi all'oblio che cancella l'individuo. Quindi alla domanda "Dove finiscono le cose quando le cose finiscono?" , la mia risposta è: Non devono finire, occorre ricordare. E la fotografia, Polaroid o meno, a questo serve. "...L'esistenza è rievocata, la memoria recuperata e l'identità sottratta alla dissoluzione...", sempre Cicozzetti nel suo scritto sul mio lavoro. La polaroid racchiude poi, per me, una strana poesia del silenzio. Ma dato che in fotografia, anche in quella che lo rievocano egregiamente, il silenzio non esiste perché la voce dell'autore è sempre presente, anche se sommessa e rispettosa, e non urlata, come cerco di fare io, allora in "Dove finiscono le cose quando le cose finiscono?" c'è il rispetto silenzioso della vita degli altri e la mia SX70 è il tramite perfetto. Tra l'altro, spesso, non so cosa verrà fuori nell'immagine dopo lo scatto perché la variabile pellicola e lo strumento stesso molto datato mi possono sorprendere, e la sorpresa dell'autore davanti ad una sua immagine è un altro aspetto che io ricerco nella mia fotografia.

Enrico La Bianca

Angelo Zzaven: Prima hai parlato del fatto che i lavori di Ugo Mulas con le sue “Verifiche” e di Ghirri, inizialmente sono stati, per te, di difficile comprensione... “troppa testa” dicevi. Spesso quando succede questo, ci si impegna maggiormente per comprendere. Quanto ha pesato sulle tue sperimentazioni, questo aspetto, centra qualcosa la loro lezione?

Enrico La Bianca: Caro Angelo, con questa domanda mi metti in crisi. Mi rendo conto di avere liquidato, impropriamente, il lavoro di due giganti della fotografia come Mulas e Ghirri, dicendo che per me erano troppi intellettuali. Mi scuso. Non volevo però dire che erano incomprensibili, anzi. Però erano gli anni settanta ed io cominciavo a fotografare. Le “Verifiche” di Mulas sono del 1971-72, e “Viaggio in Italia “ di Ghirri del 1984; io ero appena nato come fotografo e le loro idee mi sembravano troppo “alte” per me. Oggi ho un altro approccio alla loro poetica. Ho consapevolezza dei miei mezzi e dell'importanza della loro fotografia. Ma allora riuscivo a stento a capire Henry Cartier Bresson che mi arrivava con più immediatezza, e poi era un reportagista come mi sentivo allora io. Il mio primo libro è del 1982. “Luoghi e gente di una memoria “ un reportage, appunto, sulla condizione dei giovani e degli anziani ad Enna. A Mulas e Ghirri sono tornato dopo, nella seconda fase della mia crescita fotografica. Io dal 1990 al 2010. Per venti anni non ho più fotografato per dedicarmi ad un altra mia passione, lo sport, che mi faceva anche guadagnare. Quando ho ripreso, il mio primo pensiero non era quello di uscire a fotografare, ma di conoscere il mondo ed il modo di fotografare dei grandi autori. E quindi sono ritornati Ghirri e Mulas insieme a tanti altri che continuano ad essere miei riferimenti come ho detto qualche domanda fa.

Angelo Zzaven: Venti anni senza fotografia, una pausa piuttosto lunga, che cosa ti ha fatto ripartire, me ne parli?

Enrico La Bianca: A conferma di quanto ho detto prima parlando di Ghirri, fu proprio un suo libro, “Lezioni di fotografia” del 2009 che mi fece ricominciare. Mi sono sentito anche io un suo studente. E soprattutto mi sono reso conto che la fotografia si può fare sotto casa. Non c’è bisogno di girare il mondo. Certo viaggiare è una cosa meravigliosa a prescindere dalla fotografia. Secondo me sempre meglio parlare di cose che conosci bene, il tuo mondo, i luoghi dove vivi. La fotografia è così più facilmente riconducibile all’autore che sembrerà più “vero”, e la sua fotografia più coerente. Con il tempo anche io ho viaggiato, ma, tranne per un reportage commissionato da una ONG in Africa, ho viaggiato per me stesso, non per fotografare. Fotografavo solo quando avevo capito qualcosa di quello che vedevo. Poi Ghirri mi insegnava a ragionare per progetti e non per singola foto.

Dal 2010 in poi non ho più smesso di fotografare. Ho sempre avuto molte idee, anche diverse tra loro, ed i miei progetti sono stati così, vari, ma sempre riconducibili alle mie scelte fondamentali: l’identità, la memoria, l’uomo in sostanza, anche quando la sua presenza fisica mancava nelle mie immagini. Ma mi interessava, e mi interessa ancora, il suo passaggio in questo mondo. Poi ci sono i progetti che mi vengono a cercare, dovuti al caso ed alla mia sensibilità, come nei “Fogliacci” di cui ho parlato prima.

Enrico La Bianca

Angelo Zzaven: Tra le tante cose interessanti della tua mostra, che mi hai fatto notare, ci sono sicuramente i libri d'artista, pubblicazioni in unica copia che non ho potuto apprezzare con la giusta attenzione. Me ne puoi parlare?

Enrico La Bianca: Certo, lo faccio con piacere. Nella mia idea di produzione fotografica il principio che mi ha sempre guidato è la stampa. Il prodotto finale un libro, se si tratta di un progetto, o la stampa singola da appendere o comunque da “toccare” fisicamente. Gli hard disk moderni mi inquietano, mi sembrano dei buchi neri dentro i quali può sparire tutto da un momento all’altro! Quando non è possibile stampare e pubblicare un libro, perché è costoso o non c’è un editore o altro, allora mi costruisco da solo, se ne vale la pena, il mio libro. Ci metto dentro delle stampe originali, analogiche, ma più spesso digitali, e me lo cucio, creando delle semplici fanzines, o certe volte, a seconda della mia creatività, anche dei veri e propri libri d’artista in unica copia. Ne possiedo diversi. C’è nella mia componente fotografica una parte artigianale. Questa componente c’è anche nelle polaroid manipolate con il pirografo o colorate a mano.

Angelo Zzaven: “Quando si fotografano persone a colori, si fotografano i loro vestiti. Ma quando si fotografano persone in bianco e nero, si fotografano le loro anime” Cosa pensi di questa frase di Ted Grant? In generale hai preferenze tra i due metodi di lavoro?

Enrico La Bianca: Io sono nato con il bianco e nero. Sviluppavo e stampavo in bianco e nero perché a colori non sapevo farlo. A colori scattavo in diapositiva e le mandavo a sviluppare. Raramente usavo pellicole a colori, tranne per cose di famiglia, e soprattutto quando i laboratori fotografici per ogni pellicola a colori da sviluppare e da stampare te ne regalavano una vergine.. Questioni di soldi!! Ma siccome i miei riferimenti iniziali erano HCB e Giacomelli ecco che il Bianconero era la mia cifra. Ed è rimasta anche adesso. Ci sono dei lavori che mi piace fare a colori, naturalmente, ma il linguaggio che preferisco è il bianconero. C'è inoltre un altro motivo più basico perché lo preferisco, e cioè il fatto che io soffro di una forma di discromatopsia che non mi fa distinguere alcuni colori. Quando stampo a colori ho bisogno di un "badante colore" prima di spedire il materiale al laboratorio di stampa. E' avvenuto ultimamente per la mostra sulla Madonna Patrona di Enna. Devo ringraziare Attilio Scimone per la consulenza, altrimenti per cose meno impegnative c'è mia moglie Loredana. Adoro il colore di Haas, Fontana o Leiter e quello di Ghirri, ma rischierei di fare pasticci senza assistenza. Per cui....bianconero e vai. Del resto come si dice, noi vediamo a colori per cui il bianconero ha una dimensione più surreale e meno esplicita. Mi piace poi pensare che il colore lo metteranno quelli che guardano le mie immagini in bianco e nero. I miei lavori devono essere "aperti" e quindi parte di essi sono a carico di chi li guarda che ne trarrà emozioni e sensazioni del tutto personali.

Enrico La Bianca

Angelo Zzaven: Che sviluppi prevedi per il futuro della fotografia, ad esempio tra dieci anni che tipo di cambiamenti immagini?

Enrico La Bianca: Angelo io non ho pregiudizi nei confronti della tecnologia. La produzione di immagini può avvenire con ogni mezzo, è l'idea che c'è dietro che fa la differenza. Digitale, analogico mah! la discussione ancora continua. Per me ha poca importanza. Mi affascina l'analogico e lo uso sempre di più, polaroid comprese, ed uso il digitale quando serve, come ho detto nelle altre risposte. Adesso sta intervenendo anche in fotografia, l'intelligenza artificiale (A.I.), che aiuterà molti a produrre immagini di grande impatto visivo. Ma è questa fotografia? Ci saranno di sicuro i canali, le mostre, i concorsi che avranno nello loro sezioni le immagini prodotte con l'A.I. Spero solo che non si bari e se ne dichiari l'uso! Fra dieci anni, ma anche prima, ci saranno macchine fotografiche collegate ad internet come i telefonini che scatteranno foto e poi, con il software interno, potranno elaborare direttamente la foto con le immagini dal web in base alle indicazioni pre-disposte o post-disposte dal fotografo tutto tramite A.I.. Avremo tutta una serie di immagini "epiche" ed "iconiche"! Io penso che andrò, soldi permettendo, sempre più indietro con la pellicola, ma forse anche il mercato mi seguirà rivalutandone l'uso. Andrò sempre più a "togliere", magari cercherò contaminazioni con altre arti come la pittura, la scrittura o la musica. Ma a ben pensare questo già lo faccio adesso. In sostanza cercherò di essere coerente con le mie idee di fotografia.

Angelo Zzaven: Enrico, la nostra chiacchierata volge al termine, per finire, vorrei che mi rispondessi a una domanda che non ti ho fatto. Ti ringrazio di cuore per la disponibilità.

Enrico La Bianca: Mi faccio due domande (anziché una) e mi do le risposte: Prima domanda: Perché hai scelto la fotografia come mezzo privilegiato per comunicare con gli altri le tue idee? Prima risposta: Perché quando sono impegnato a fotografare sento che non sto perdendo il mio tempo, che, soprattutto alla mia età, è il bene più prezioso, e che non voglio sprecare, visto che me ne rimane sempre meno.

Seconda domanda: Quale caratteristica deve avere una fotografia per essere ritenuta da te valida? Seconda risposta: Deve essere utile. Deve spingerti a pensare e deve potere trattare un tema riconoscibile da più persone possibili, meglio se tema universale. Deve essere "aperta", senza essere imprigionata dentro gabbie mentali costituite da una visione con un solo punto di lettura. Deve stupirmi quando la vedo stampata, (bisogna stampare il più possibile), perché mi devo accorgere di qualcosa che non avevo preventivato, che era sfuggito al mio controllo e che ha impreziosito la foto. Con le polaroid mi succede sovente, e con le pellicole preferisco usare quelle scadute da molti anni che mi danno una variabile che mi interessa ci sia. E' complicato, infatti non sempre ci riesco. Quando succede mi sento bene e so di avere fatto una buona foto. Certo è davvero raro che con una singola foto si riesca ad avere tutto, magari con un portfolio il discorso risulterebbe più organico.


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