Joe Oppedisano

Il ritratto mi ha sempre attratto. L'incontro con l'altro mi affascina e mi incuriosisce e riuscire a sintetizzare l'incontro in una immagine è una sfida. Mi piace fotografare le sub-culture (le serie sul circo, sugli artisti e i musicisti di strada), persone che spesso sopravvivono solo con la passione che mettono in ciò che fanno. Ho cercato sempre di fotografarli in modo rispettoso, cercando di dar loro la dignità che a volte non ottengono in società”

Angelo Zzaven: Joe, prima di tutto ti ringrazio per aver accettato questa intervista in un momento delicato della tua via. Conosco un po il tuo percorso per averlo incontrato nella prima fase del progetto #leimmaginicheamo, ma vorrei approfittare di questa occasione per conoscerti meglio... mi parli brevemente di te, della tua storia, del tuo primo incontro con la fotografia?

Joe Oppedisano: Angelo, grazie per l'invito, mi fa piacere fare questa intervista. Parlare di me brevemente è un po complicato. La mia storia è discretamente complessa e intrecciata con vari mondi.. Come tu sai, sono nato in Calabria, in particolare a Gioiosa Ionica. All'età di otto anni, la mia famiglia si è trasferita in America, in quanto mio papà era italo americano, la sua famiglia era americana già dagli inizi del 900. I miei ricordi di quel periodo, era il 1963, non sono bellissimi: arrivare in un mondo nuovo, dove non conosci nessuno, non conosci la lingua, non conosci l'ambiente... Per dire: non avevo mai visto un ragazzo di colore o un cinese... Inizialmente è stato molto duro...e a quei tempi gli italiani non erano ben visti. A scuola ero l'unico a non parlare l'inglese. L'insegnante mi dava più attenzione, ma i ragazzini a quell'età possono essere tremendi, mi deridevano, e spesso bisognava fare a botte per farsi rispettare. Avevamo una macchina fotografica piccolina in casa, sai quelle con i flash a cubo, che mi piaceva utilizzare. Documentavo cene di famiglia, compleanni, gite con gli amici, ecc., poi a scuola... le scuole in America sono diverse, finito il liceo, a diciassette anni ero già all'università. In seguito ho avuto la possibilità di fare un corso di fotografia, teoria e pratica in camera oscura... questo corso mi ha fulminato... ho capito subito che quella cosa doveva far parte della mia vita, tra l'altro avrebbe soddisfatto un'altra delle mie passioni: facendo il fotografo avrei potuto viaggiare. Mollai l'università (mi mancava solo un anno per laurearmi) e mi iscrissi alla School of Visual Arts di New York.

Angelo Zzaven: Hai cominciato la carriera di fotografo che eri giovanissimo, cosa hai provato ad essere catapultato da subito, nel mondo complesso della fotografia commerciale e pubblicitaria?

Joe Oppedisano: Ho fatto il mio primo lavoro professionale che ero ventunenne, mentre ancora studiavo fotografia, era un lavoro per Alitalia a New York... dovevo viaggiare in Italia per dieci giorni, fotografo ufficiale di un gruppo di cinquanta giornalisti di varie riviste invitati a promuovere la Toscana negli USA, un lavoro importante pieno di responsabilità ed io ero nervosissimo. Durante questo viaggio succede il terremoto in Friuli, era il 1976 (avevo 21 anni), due giornalisti del Philadelphia Inquirer mi invitarono ad andare con loro a documentare quella terribile tragedia. Vidi quella possibilità come un colpo ulteriore di fortuna, decisi di seguirli... girammo per più di una settimana tra le tendopoli dei senzatetto e i vari paesi distrutti. Fu lì che capii che non potevo fare quel lavoro... perché non riuscivo a essere indifferente al dolore e alla tragicità dell'evento, non riuscivo a scattare, in dieci giorni avevo fatto, appena, quattro rullini. Ero giovane e per me, quella distruzione, era una visione troppo forte, non potevo fare quel genere di fotogiornalismo. Decisi che quando sarei rientrato, mi sarei dedicato ad altro, alla foto pubblicitaria. Ho cominciato a studiare con più attenzione quell'aspetto della fotografia ed in seguito cominciai a fare l'assistente fotografo di uno dei miei insegnanti. In seguito, su consiglio suo, cominciai a fare l'assistente per Tony Petruccelli, fotografo importante con un grande studio, da cui ho imparato tutte le cose essenziali e importanti della fotografia pubblicitaria e della gestione di uno studio. Ho lavorato per due anni per Tony Petruccelli e nel frattempo utilizzando il suo studio (come parte del compenso per il mio lavoro), costruivo il mio portfolio, essenziale per propormi ai miei futuri clienti.

Joe Oppedisano

Angelo Zzaven: Le sperimentazioni, le manipolazioni, ecc. fanno emergere uno spirito curioso ed eclettico, quanto valore dai alla sorpresa in fotografia?

Joe Oppedisano: Ok, questa è una bella domanda... Le prime sperimentazioni che ho fatto, ero ancora a scuola, mi ricordo un corso sul colore, l'insegnante era George Obrenski che aveva vinto un premio Guggenheim, un fotografo surreale che sperimentava parecchio, da lui ho imparato molto. Il valore della sorpresa in fotografia è molto importante ma devi fare le azioni giuste perché ciò avvenga. Stare per la prima volta in camera oscura è una sorpresa ma lì non conoscevi nulla per cui è normale.... ti spiego, il valore della sorpresa è notevole, quando il risultato è ripetibile e non frutto del caso. Fai delle azioni, tipo una doppia o tripla esposizione o una multi-esposizione... e non sai mai esattamente il risultato che otterrai, anche se hai già un'idea dell'effetto che potresti ottenere... Le procedure devono portare ad azioni precise e ripetibili, se non puoi ripeterle è solo frutto del caso. Ovviamente, trovata la procedura, la ripeti moltissime volte fino a quando non trovi il risultato più vicino alla tua idea.

Angelo Zzaven: Hai lavorato con fotocamere di tutti i formati, alcune addirittura modificate da te stesso; hai usato le monouso usa e getta, facendoci, tra l'altro, due libri fotografici. Mi racconti qualcosa di queste esperienze?

Joe Oppedisano: Certo. Commercialmente ho usato sempre vari formati, con soggetti in movimento. Utilizzavo il 35mm caricata con la famosa kodachrome che permetteva ingrandimenti adeguati alla cartellonistica; usavo il formato 6x7 Mamiya RZ per la ritrattistica e la moda, invece il banco ottico 10x12 o 20x25 per fotografare le auto o qualsiasi altro soggetto che doveva avere la massima qualità... per cui ero già abituato a utilizzare vari formati. Non sono stato mai un feticista di macchine fotografiche, non ho mai posseduto una Leica, per esempio... la mia prima reflex e stata una Miranda 35mm, invece la mia prima Nikon l'ho vinta ad un concorso, il Nikon Photo Contest, nel 1980. Ho partecipato tre volte a questo concorso e ho sempre vinto il secondo premio... ne uscivo sempre rammaricato perché io puntavo ai soldi (10.000 dollari) del primo premio ah ah... Ho vinto sempre con foto sperimentali, tra l'altro Nikon realizzava una mostra e un bel catalogo con le immagini vincitrici, mostra che girava il mondo e devo dire che era una bella vetrina. La storia delle macchinette usa e getta è particolare... La rivista Photo aveva una rubrica in cui si parlava di nuovi prodotti sul mercato fotografico, in pratica davano in mano ad un professionista l'apparecchio per una prova sul campo. La 3M aveva realizzato queste macchinette di plastica usa e getta e a me furono affidate quelle a colori mentre a Giacomelli quelle della Ilford in b/n, per fare le recensioni e pubblicarle sulla rivista. L'articolo ebbe abbastanza successo e in seguito la 3M mi propose di realizzare un libro a scopo promozionale. Mi diedero ventisette macchinette da 27 pose, alcune con flash e alcune no, ma non usai mai il flash. Usai le macchinette senza cartone esterno per renderle ancora più discrete. Il progetto che avevo in testa era di raccontare la mia infanzia newyorkese: avevo una settimana di tempo e devo dire che mi sono divertito un sacco. Il libro ebbe un bel successo. Fu presentato in diverse fiere internazionali creando stupore sul reale apparecchio che era stato usato per le riprese... Visto il successo decisi di proporre un secondo libro che accettarono, ma ci vollero, ancora, due anni per realizzarlo. Questa volta portavo le macchinette sempre con me nei vari viaggi per il mondo. Volevo realizzare un progetto più ambizioso, di respiro internazionale, ispirandomi al libro di Jack Kerouac On the road.

Joe Oppedisano

Angelo Zzaven: Hai usato la famosa Big One, la polaroid 50x60, la più grande fotocamera a sviluppo immediato, me ne parli?

Joe Oppedisano: Questa è stata una bella fortuna... La mia esperienza con la polaroid inizia negli anni “70 con la polaroid SX-70, nel 1979 a Venezia sono stato assistente in un workshop di Christian Vogt un bravo fotografo svizzero sperimentatore, surrealista. Il suo corso prevedeva l'uso della SX-70 e lì ho preso confidenza con la polaroid ed ho cominciato ad amare le sue specificità. Sembrava una magia vedere un'immagine svilupparsi nelle tue mani, a colori senza il bisogno di una camera oscura. Ritornato negli USA comprai una di queste polaroid e ci feci diverse sperimentazioni. La Big One era nata a scopo promozionale da alcuni anni, la Polaroid ne aveva realizzate solo tre esemplari, una era in Europa a Düsseldorf, una a New York e una a Cambridge dove c'era la sede della Polaroid. La usavano, a pagamento o su invito, artisti importanti e prestigiosi, per fare un esempio Andy Warhol. Portarono questa macchina a Milano nel 1987, per un mese e invitarono una serie di fotografi italiani conosciuti, per utilizzarla. Basilico fu uno dei tanti. A me incuriosì molto questa storia, volevo utilizzarla anch'io... Mi proposi, ma pur apprezzando il mio lavoro mi dissero che, poiché non ero in lista. avrei dovuto aspettare la rinuncia di qualche altro fotografo. Così quando la fotografa Maria Vittoria Backhaus rinunciò, mi permisero di usare la Big One per un giorno. Durante quella giornata di lavoro ebbi la fortuna di conoscere Barbara Hitchcock la curatrice della collezione Polaroid a Cambridge. Praticamente le immagini che realizzai vennero scelte sia per la collezione, sia per alcune loro importanti iniziative. In seguito proposi le immagini di alcuni dei miei progetti ai curatori tra cui “il lavoro sul circo”, “Arles”, “Carnevale a Milano” “le finestre”, “artisti di strada”. Il rapporto con i curatori della Polaroid si consolidò, i miei lavori piacevano così dal 1987 al 1994 fui sponsorizzato dalla Polaroid per lavorare sui miei progetti. Per me un piacere ed un onore poter lavorare con questa fotocamera gigantesca a sviluppo immediato.

Angelo Zzaven: Ricordi qualche aneddoto curioso legato alla tua lunga attività? Ho letto, qualcosa di curioso legato alla foto del bambino appeso al filo che pare tu abbia rincontrato alla sua laurea, me ne puoi parlare?

Joe Oppedisano: Ricordi legati alla mia attività ce ne sono parecchi. La fotografia del “bambino appeso “ad esempio è nata per una campagna pubblicitaria della Technics-Panasonic. L'art director voleva rifare una fotografia trovata in vecchi libri degli anni '50. Organizzai il casting, si scelse il bambino, e abbiamo fatto la foto. L'aneddoto divertente è che pochi anni fa, ricevo una email da un ragazzo... che mi dice: “Sa sig. Oppedisano sono Theo... sono uno studente della comunicazione dell'accademia di Bergamo, sto per laurearmi e la mia tesi la voglio fare, anche, sulla fotografia commerciale. Io seguo il suo lavoro già da un po’ di tempo, vorrei farle un'intervista e conclude dicendo: io sono il bambino appeso... “ Rimasi piacevolmente colpito.

Joe Oppedisano

Angelo Zzaven: Nel tuo lavoro autoriale ho notato che hai particolare predilezioni per il ritratto, che hai sviluppato con diverse tecniche, Me ne parli?

Joe Oppedisano: Il ritratto mi ha sempre ispirato. Con il ritratto nasce la fotografia: i ritratti importanti hanno scandito la storia della fotografia. Non sono uno Street photographer: mi piace che il soggetto sappia che lo sto fotografando, in modo da decidere io tutte le variabili che faranno parte del ritratto. Non voglio fare la documentazione della persona inserita nel suo contesto, ma voglio che quello che ottengo sia una cosa mia, una mia interpretazione. Devo essere veloce, devo creare complicità col soggetto, devo comunicare con lui per tenerlo leggermente distratto, in modo da cogliere quello che a me interessa. Mi piace molto fotografare persone che incontro per caso e mi colpiscono particolarmente. Qualche giorno fa ho pubblicato su facebook una fotografia per la serie Street Portrait di una ragazza con i capelli blu. L'ho incontrata a Verona, le ho chiesto se il colore fosse naturale... e ci siamo messi a ridere, così le ho chiesto se potevo fotografarla. Spesso con le persone avviene così: può nascere un'interazione che va oltre il momento della fotografia, un'amicizia ad esempio e questo è molto bello.

Angelo Zzaven: Che significa per te fotografare un artista o un musicista di strada, quali sono le motivazioni profonde che ti hanno spinto nella realizzazione di questi progetti?

Joe Oppedisano: Il ritratto mi ha sempre attratto. L'incontro con l'altro mi affascina e mi incuriosisce e riuscire a sintetizzare l'incontro in una immagine è una sfida. Mi piace fotografare le sub-culture (le serie sul circo, sugli artisti e i musicisti di strada), persone che spesso sopravvivono solo con la passione che mettono in ciò che fanno. Ho cercato sempre di fotografarli in modo rispettoso, cercando di dar loro la dignità che a volte non ottengono in società. Non dimentichiamo che fino a poco tempo fa gli artisti di strada venivano considerati come barboni e addirittura venivano cacciati dalle città. Ho sempre cercato di estrapolare i soggetti dai loro luoghi: fotografare i musicisti di strada nel loro ambiente, lo fanno tutti. Portavo lo studio da loro. Al circo, ad esempio, col loro permesso, su appuntamento, li fotografavo davanti a un fondale. Inizialmente erano stupiti (non si erano mai visti fotografati così), poi alla fine erano felici della mia considerazione.

Angelo Zzaven: Le immagini che ho scelto per accompagnare questa chiacchierata fanno parte della serie “Inner self”, una delle tue belle ricerche sul ritratto. Come nasce, quale concetto lo sorregge, me ne puoi parlare?

Joe Oppedisano: Già nei primi anni '90 avevo voglia di cercare nuove strade per le fotografie di ritratto. L'idea è nata a casa di amici francesi. C'era una silhouette degli anni '20 del bisnonno, un Generale militare francese, sai all'epoca si facevano già nel 700 queste silhouette per la carta da lettere, per gli stemmi. Guardandola ho pensato che con una doppia esposizione (avevo già parecchia esperienza delle doppie esposizioni) su una silhouette vergine, avrei potuto riesporla dentro e avere due versioni del soggetto sullo stesso fotogramma. Quindi ho fatto una prova su me stesso con la polaroid 10x12, ovviamente scattava il mio assistente. Il risultato fu strabiliante, l'esperimento mi colpì particolarmente. Concettualmente era un modo simbolico di fotografare te dentro te stesso. Questa simbolizzazione mi riportava al discorso dell'anima, del catturare l'anima, che molti ritrattisti cercano, con risultati spesso deludenti. Ma poi cos'è l'anima? è possibile fotografarla?

A rendere questi ritratti ancora più intriganti, c'è la sensazione di disorientamento che si percepisce a causa della doppia focalizzazione, senza un ordine preciso, e questo mi piace molto.

Joe Oppedisano

Angelo Zzaven: Nel momento in cui un'emozione o un fatto è trasformato in una fotografia, esso non è più un fatto ma un'opinione. Mi piace questa tua frase, possiamo anche dire che noi siamo le nostre immagini?

Joe Oppedisano: Si. Ti faccio un esempio. Se scatti una fototessera con ripresa frontale, luce diffusa, fondo bianco, questa è una cosa standard, normale. Se invece parliamo di un ritratto, sei TU che decidi come farlo: b/n, colore, figura intera, mezzo busto, puoi parlare con la persona e catturarla nel mentre. Ci sono un sacco di decisioni che scegli tu, e sei tu che presenti questa persona come la vedi tu, o come vuoi che la vedono gli altri. Per cui questa è una tua scelta, una tua opinione. Ti racconto un aneddoto legato a Yousuf Karsh, il grande ritrattista canadese che ti chiarisce quello che voglio dire. Lui fece quel famoso ritratto di Winston Churchill, durante la guerra, in piedi, senza sigaro con l'espressione del viso seccata. Karsh, all'epoca scattava in grande formato, con le lastre, b/n. Aveva poco tempo per fotografare Churchill. Churchill si presentò col sigaro in bocca. Lui non voleva fotografarlo con il sigaro in bocca, così ha detto al suo assistente: “quando ti dico di scattare, scatta.” Karsh va' da Churchill, e mentre gli toglie il sigaro dalla bocca dice all'assistente di scattare. Karsh voleva rappresentarlo con un'espressione infastidita, legando la sua immagine alla politica, alla guerra, non con un'immagine tranquilla, rilassata, richiamata da un sigaro, che chiunque avrebbe potuto fare.

Angelo Zzaven: So che hai conosciuto Lanfranco Colombo, uno dei massimi esponenti della storia e della diffusione della fotografia italiana. Mi dici in che circostanza vi siete conosciuti e se avete collaborato in qualche progetto?

Joe Oppedisano: Ho conosciuto Lanfranco nei primi anni '80. “Il Diaframma” era l'unica galleria che faceva mostre di fotografia all'epoca. In quell'occasione gli erano piaciuti i miei lavori, sia commerciali che autoriali, così mi propose una mostra insieme intitolata “Professione e Passione”. In seguito, frequentando la galleria, diventammo amici. Non era lontano dal mio studio e mi coinvolgeva sempre quando faceva mostre collettive. Per l’ultima mostra importante che ha fatto, la Guggenheim di Venezia, mi ha scelto tra i 50 autori che stimava di più. È stato lui ad ispirarmi la ricerca sul circo, proponendomi una mostra per il SICOF di Milano, se ricordo bene nel 1986/87. Spesso mi veniva a trovare nel mio studio, si informava di quello che facevo. Quando vide la serie Inner Self, cui mi stavo dedicando, mi propose una mostra che allestimmo. Gli feci anche un ritratto che fa parte di Inner self. Una cosa curiosa che mi ricordo di Lanfranco capitò durante un mio lavoro pubblicitario. Nel 2000 ho fatto la campagna internazionale per la Parmalat con testimonial il calciatore Ronaldo. L'argomento era top secret. A quei tempi Ronaldo era famosissimo e se si fosse saputo che era nel mio studio, sarebbero arrivati orde di tifosi. Lui mi chiama pochi giorni prima delle riprese e mi dice: “Ho sentito che devi fotografare Ronaldo... Lascia perdere chi me l'ha detto, io comunque voglio una foto con Ronaldo”. Così gli dissi di venire nelle ore di pausa e gliela feci.

Joe Oppedisano

Angelo Zzaven: Quello che colgo dalle tue immagini è la tua capacità di far emergere il bambino che vive in te, hai smontato e rimontato le cose del mondo, facendole passare attraverso il filtro della tua curiosità, il tuo eclettismo. C'è ancora qualcosa che vorresti smontare e rimontare, o meglio hai ancora voglia di giocare, di divertirti?

Joe Oppedisano: Si, ho sempre voglia di giocare, di divertirmi. Penso che la sperimentazione nasce con il gioco: giocando troverai delle soluzioni che meritano di essere approfondite. È lo spirito giusto, il bello dello sperimentare è la leggerezza, la voglia della scoperta, il divertimento. Mi piace parlare di questa metafora: un bambino vede un triciclo... gattona verso di esso... colpito dalle forme, ruote, colori... lo raggiunge e comincia a toccarlo, a leccarlo, a morderlo, in pratica usando tutti i sensi con molta curiosità. Poi appena un genitore lo mette sopra e gli spiega come pedalare, non lo vedrà mai più come astratto, lo vedrà come un triciclo, lo vedrà come un oggetto su cui salire e pedalare.

Nell'ultimo periodo sto lavorando alla serie “Stratificazioni”, in realtà ci lavoro da circa dieci anni, ho fatto anche una mostra a Bari qualche anno fa... lavoro che riporta alle multi esposizioni... Lavoro da più di quarant'anni, e se guardo le mie ricerche del passato, invece di fermare il tempo, cogliere il momento decisivo, io cerco di prolungarlo con le estensioni, i Collage “De Costruzione” ma anche con le silhouette, perché sono due foto. Sono arrivato adesso a realizzare queste stratificazioni e anche queste sono un prolungamento del tempo, perché sono l'immagine dello stesso soggetto con varie angolazioni, varie prospettive, e con varie focali, dove praticamente annullo quel soggetto che diventa qualcos'altro.

Ad esempio, in uno dei miei primi tentativi, ho fotografato un alberello piccolo con circa 50 esposizioni: è venuta fuori un'immagine che sembra un quadro di Jackson Pollock; non era più l'albero! Questa cosa mi ha ispirato “verso l'invisibile”. Una visione “fantastica” che ti porta a fantasticare e immaginare in merito ai soggetti che hai davanti. Un nuovo modo di vedere il mondo che ti riporta al gioco, con metodo e ripetibilità: un gioco serio.

Angelo Zzaven: Caro Joe, la nostra chiacchierata è arrivata alla fine. Sicuramente ci sono tante cose che non ti ho chiesto, domande che magari avresti voluto che ti facessi, ecco, vorrei che mi rispondessi a una domanda che non ti ho fatto. Ti ringrazio di cuore per la pazienza e la disponibilità e mi scuso per i problemi organizzativi iniziali.

Joe Oppedisano: La domanda che mi farei è se ho mai avuto qualche autore di riferimento.

E ti rispondo di si! Ci sono molti autori che mi hanno influenzato. All'inizio mi piaceva molto Bill Brandt per i suoi nudi surrealisti... poi ho scoperto che era stato assistente di Man Ray. Altri che mi hanno inspirato: Lee Friedlander quando ero al Queens Collage. Il mio professore ci faceva vedere i suoi lavori dell'epoca che erano i riflessi negli specchi urbani di negozi, come vedere un'altra realtà. Danny Lyon, (un’amica lo conosceva). Ho visto il suo lavoro nel sud durante le varie manifestazioni del Civil Rights Movement. Lo ammiravo per il suo coraggio. Ralph Gibson che apprezzavo per i suoi nudi e il concettualismo. Eugene Smith, mi è sempre rimasta impressa la sua foto nella mostra Family of Man: i due bambini che camminano e che sembra escano da una caverna (la foto dei suoi figli), e naturalmente il lavoro su Minamata.

Arnold Newman per i suoi ritratti, che ho avuto occasione di conoscere. E poi Tanti altri: Robert Frank, William Klein, Diane Arbus, Irving Penn, Man Ray, Walker Evans, Steven Shore, Ed Ruska, William Eggleston, August Sander. La lista sarebbe lunghissima. La storia della fotografia è affascinante.

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