Attilio Scimone

Le mie prime mostre non mi coinvolgevano parecchio... le opere, erano state pensate per una mia ricerca molto personale ed esporle e condividerle per me era una cosa incomprensibile. Non cercavo nessun consenso, nessun confronto, non volevo spiegare niente a nessuno... appartenevano solo a me... dal momento che iniziai il percorso espositivo ho capito che dovevo necessariamente uscire fuori da questo tipo di egoismo, dovevo iniziare un percorso di condivisione.”

Angelo Zzaven: Attilio, spiegare chi sei e cosa hai fatto nella fotografia mi risulta molto difficile, per lavoro o per seguire la tua pulsione artistica hai offerto il tuo impegno nei più svariati campi della fotografia. Per questo vorrei che fossi tu a riassumere il tuo eterogeneo e lunghissimo impegno in campo fotografico. Mi parli di te?

Attilio Scimone: Caro Angelo mi fai una domanda di pochissime righe ma riguardano un mio vissuto in fotografia di almeno 50 anni. È proprio così. Ho iniziato a fotografare nei primi anni ’70, non avevo grandi possibilità economiche e allora cominciai a collaborare con un fotografo della mia città che oltre ad avere uno studio si occupava di chimica fotografica. Lui preparava gli sviluppi per le pellicole in B/N ed io facevo i test per determinare le caratteristiche tecniche. Da lì nasce anche il mio senso di sperimentazione nella fotografia. Mi regalò una Exakta RTL 1000, una reflex molto modesta ma sicuramente inaspettata. Negli stessi anni mi iscrissi nella Facoltà di Architettura di Palermo e cominciai a interessarmi di paesaggio e architettura. Ebbi la possibilità di seguire una serie di incontri con il filosofo Rosario Assunto, anche lui nisseno, insegnava estetica del paesaggio presso l’Università di Urbino. Sono stati incontri che hanno tracciato il mio percorso professionale orientatomi a studi sempre inerenti il territorio e l’aspetto urbano. Dopo pochi anni ebbi l’opportunità di frequentare in Toscana ambienti che si occupavano di fotografia industriale e pubblicitaria. Imparai velocemente ad utilizzare il banco ottico e a comprenderne subito le sue potenzialità. Furono momenti molto intensi e l’utilizzo di questo apparecchio fu molto coinvolgente; nuove visioni per la fotografia industriale e quella paesaggistica. Ritornai in Sicilia nella mia città, Caltanissetta, ma alla fine degli anni settanta e gran parte degli anni ottanta non c’era molta committenza qualificata ed allora decisi di dedicarmi alla foto cerimoniale.

Alla fine degli anni ottanta smisi di occuparmi di questo tipo di fotografia e mi dedicai alla fotografia industriale, pubblicitaria, grafica e ovviamente continuai nella mia ricerca artistica che ha accompagnato sempre il mio percorso. Furono anni eccezionali avevo clienti in tutta la Sicilia, ma nel frattempo cercavo con insistenza di esplorare sempre di più il mio rapporto con la foto artistica e soprattutto con gli studi paesaggistici. Gli anni ottanta e novanta sono anni di grandissima produzione. Realizzai e affinai tecniche di ripresa, di stampa e di elaborazioni in camera oscura producendo un consistente numero di opere. In questi anni metto a punto la tecnica fotografica di incisione (Grignotage).

Tra il 1986 e il 1993 realizzai uno studio molto importante sul territorio della Provincia di Caltanissetta ed uno di archeologia industriale sulle miniere dismesse di Zolfo della Sicilia. Il primo è uno studio sull’intero comprensorio provinciale che mi impegnò per 6 anni producendo 750 fotografie a colori e 750 in bianco e nero. Il lavoro ovviamente venne realizzato con apparecchi fotografici di grande formato. Di questo lavoro sono stati pubblicati 4 volumi di grande formato dal titolo “Caltanissetta e il suo territorio”. Per quanto concerne lo studio sule Solfare in quegli anni realizzai un corpo di ben 600 foto in B/N sempre con apparecchi a banco ottico. Adesso di questo lavoro di archeologia industriale si sta realizzando un volume ed una mostra itinerante. La prima mostra sarà tenuta a Caltanissetta presso Il Palazzo Moncada - Galleria Civica D'Arte. In questi anni ho avuto contatti di collaborazione con riveste nazionali e con al CISE Tecnologie Innovative. Dal 1986 sino al 2016 ho insegnato fotografia presso un centro di Formazione Professionale di Caltanissetta e ho collaborato con diversi Istituti Scolastici per corsi sul linguaggio fotografico.

Dal 2000 oltre che a continuare a occuparmi di Pubblicità e Comunicazione Industriale inizio il mio percorso espositivo. Proprio nel 2001 mi sono incontrato a Palermo con l’allora Direttore di Gente di Fotografia Enzo Mirisola, ricordo quei momenti sempre con piacere in quanto avendo visto le mie opere telefonò immediatamente al critico e saggista francese Jean Claude Lemagny. Dopo avere inviato un pò di foto mi cominciò a sostenere inviandomi delle lettere molto personali e soprattutto dedicandomi un suo pezzo critico che fu pubblicato sulla rivista Gente di Fotografia. Ovviamente l’ultimo ventennio è molto ricco di esperienze artistiche, di ricerca, di pubblicazioni, di mostre, di workshop, lectio magistralis, di incontri e soprattutto anni di grandi riscontri culturali.

Attilio Scimone

Angelo Zzaven: Dall'armeggio con i chimici basilari per la fotografia, agli studi di paesaggio e architettura, agli incontri filosofici, un mix esplosivo che ti ha introdotto presto al mondo della fotografia e ha tracciato il tuo percorso artistico. Quali artisti non necessariamente del mondo della fotografia, in seguito, hanno influenzato e formato la tua creatività?

Attilio Scimone: Questa è una domanda che mi sono fatto spesso e non ho mai trovato una risposta diretta e immediata. Ricordo una delle prime mostra personale tenuta proprio a Catania “Percorsi etici - Galleria d’arte moderna - Le ciminiere” nel 2005. Le mie prime mostre non mi coinvolgevano parecchio, avevo una sensazione che non riesco nemmeno a descrivere, le opere che avevo realizzato nei decenni precedenti erano state pensate per una mia ricerca molto personale ed esporle e condividerle per me era una cosa incomprensibile. Non cercavo nessun consenso, nessun confronto, non volevo spiegare niente a nessuno erano frutto solo di una ricerca e rappresentavano un segmento del mio vissuto che apparteneva solo a me. Dal momento che iniziai il percorso espositivo ho capito che dovevo necessariamente uscire fuori da questo tipo di egoismo, dovevo iniziare un percorso di condivisione. Quella mostra mi mise in contatto con un numero elevato di artisti e appassionati dell’arte, ognuno voleva dare la sua interpretazione, ognuno vedeva riferimenti ad autori che io non avevo preso nemmeno in considerazione, ognuno cercava di interpretare le mie opere utilizzando un proprio linguaggio ed una propria esperienza. In effetti l’arte è anche tutto questo, una interconnessione.

Angelo Zzaven: Non sei il primo artista che mi parla di questo riserbo “conservativo”, in parte credo, inconsapevole, ad aprirsi allo sguardo e al giudizio altrui. A mio parere, un impedimento che mina alla base uno dei fondamenti dell'arte: l'interconnessione, come dici tu, la condivisione, la contaminazione... Senti di esserti affrancato da questa forma di “cautela” mentale presente in molti artisti?

Attilio Scimone: In un certo senso penso che sia importante completare un progetto fotografico prima di condividerlo. Possibilmente sono rimasto legato a forme di confronto ed espositive del tutto tradizionali anche se curo personalmente la grafica ed i contenuti dei miei siti web non amo molto la pubblicazione degli miei lavori sui social. Anche se in me esiste la consapevolezza dell’importanza mediatica che offrono questi strumenti non riesco a interagire e non capisco perché un’opera deve essere liquidata con un like. Sono presente su Facebook ed Instagram ma li uso pochissimo ed interagisco ancora meno. È importante confrontarsi e condividere il proprio lavoro con le immagini stampate possibilmente su un tavolo di lavoro o, meglio, esposte in una galleria d’arte e parlarne a lungo. Chi mi conosce ed ha frequentato il mio studio sa benissimo quale è la mia disponibilità a discutere sul mio lavoro e condividere esperienze fotografiche. In linea di massima penso che questa cautela mentale, come tu giustamente la chiami, ormai è sparita dal panorama artistico. Sottoporre il proprio lavoro anche in progress sta diventando una costante. Un progetto va finito, stampato e condiviso.

Attilio Scimone

Angelo Zzaven: Che ruolo ha avuto la sperimentazione, la manipolazione, l'alterazione fisica dei materiali nella tua fotografia? Ci sono procedure particolari che non hai potuto e avresti voluto sperimentare?

Attilio Scimone: Sin da quando ho iniziato a fotografare ho cercato sempre di capire fino in fondo i processi chimici che contribuiscono a realizzare un’immagine affinché fosse il più possibile coerente al mio concetto personale di fotografia. Io appartengo ad una generazione di fotografi che nel momento in cui si realizzava una serie di fotografie si procedeva allo sviluppo e alla stampa delle immagini per la loro presentazione. Da un certo momento in poi cominciai a ragionare sulla possibilità di intervenire e modificare i processi di sviluppo delle negative e delle stampe fotografiche come quelli conservativi e di modifica stessa dell’immagine. Le sperimentazioni sono infinite se li consideriamo anche nelle complessità delle loro combinazioni. Non mi sono interessati i processi alternativi fini a sé stessi solo per provare un determinato processo, del resto realizzare un determinato processo di ripresa o di stampa è solo un problema di seguire le regole legate alla fisica e alla chimica fotografica. Il processo fotografico che mi ha impegnato per parecchio tempo prima che fosse perfettamente replicabile è l’incisione fotografica. Nella pratica si asporta dalla stampa fotografica l’emulsione ricca di argento metallico, le parte dense e sottoesposte delle immagini, al fine di applicare la tecnica incisoria sulla fotografia. Questo processo che ho chiamato Grignotage mi ha impegnato per diverso tempo tra il 1986 ed il 1988. Da allora non ha subito grandi modifiche, ma ho cercato sempre di adattarlo ad alcuni particolari aspetti delle mie ricerche. Vorrei solo porre l’accento su una particolare pratica fotografica: diverse mie immagini sia in fase di ripresa, di sviluppo e di stampa sono frutto di errori durante i vari processi. Nella sperimentazione si analizzano anche i risultati non voluti e frutto dell’imprevedibilità ma per essere utilizzati come proprio linguaggio è necessario che siano replicabili per rappresentare un elemento estetico e compositivo delle opere prodotte. Una tecnica di stampa che vorrei realizzare nel mio laboratorio è quella al platino in tutte le sue varianti. È da molto che accarezzo questa idea, possibilmente a breve inizio in proprio questo processo che mi permetterebbe di elevare al massimo la qualità delle stampe e la loro conservabilità.

Angelo Zzaven: I tagli, i graffi, le abrasioni sui tuoi negativi, sembrano tanto i segni rivelatori della tua anima. Il paesaggio impresso sulle tue pellicole/tavolozze diventa pretesto per esprimere te stesso, il tuo sentire?

Attilio Scimone: È chiaro che ogni immagine rappresenta la proiezione di se stessi e appropriandomi di un concetto direi che ogni fotografia rappresenta l’anima di chi la realizza. Ora è difficile entrare nel merito di concetti molto intimi, io posso dire che nel mio lavoro artistico elaboro dei concetti che mi appartengono per ricerca e cultura e che sono sempre frutto di una espressione dello sperimentare. Ogni immagine che realizzo è un percorso creativo che mi porta a concepire un’immagine secondo una ricerca che in quel momento sto elaborando. Parto dal concetto che nel momento in cui hai in mente di realizzare un’immagine il soggetto è sicuramente un pretesto per un’opera, per me non ci sono confini in cui fare confluire una ricerca e ritengo esaurito un percorso quando non ho più nulla da proporre. Molti miei lavori si sono conclusi dopo molto tempo, quando pensavo che il lavoro fosse finito è ripreso in quanto nuove soluzioni e contenuti si aggiungevano a quello già fatto. Però è corretto precisare che ogni foto non nasce direttamente da un soggetto che fotografi perché ritieni interessante in un determinato contesto; posso semplificare così il mio percorso per arrivare a produrre un’immagine:

- Disegno preparatorio (rappresenta l’idea)

- Preparazione della pellicola che forma allo stato latente l’idea disegnata.

Realizzazione dell’immagine (scatto fotografico). È la parte più complessa in quando il soggetto deve soddisfare la mia idea. Non ha importanza se paesaggio, spazio urbano, ritratto, still life.

- Sviluppo della pellicola.

- Scansione della pellicola per un’analisi completa.

- Stampa fotografica. Normalmente utilizzo carte ILFORD o FOMA. Ma diverse opere preferisco stamparle in digitale su carte FINE ART. In tutto questo percorso penso di trasferire in una immagine tutto il mondo che mi appartiene e soprattutto una ricerca che spero non si esaurisca con l’ultimo lavoro.

Attilio Scimone

Angelo Zzaven: I “carusi” delle solfatare richiamano alla mente storie di sfruttamento e di lavoro minorile durissimo, paragonabile allo schiavismo. Oggi quelle zolfare sono archeologia industriale, strutture abbandonate che identificano un paesaggio ormai divenuto storico. Mi parli del tuo progetto fotografico su queste strutture in disuso?

Attilio Scimone: Il paesaggio delle Solfare nel territorio dell’Altopiano Gessoso Solfifero in Sicilia, in termini geografici, è interessato da emergenze che rappresentano nel loro insieme e per i forti connotati antropologici un sistema unico per gli insediamenti che esso contiene. Ho trovato necessario superare una comunicazione che negli ultimi decenni ha incentrato l’attenzione sull’aspetto umano generato dal lavoro all’interno delle solfare. Sono stati raccontati attraverso la letteratura, il cinema, i tanti servizi fotografici il degrado ed i lutti generati da un lavoro dagli aspetti disumani. La parte più evocativa del lavoro all’interno delle solfare è quella dello sfruttamento dei carusi, bambini che i genitori vendevano realmente, senza prospettive di riscatto, per pochi soldi ad altri operai per l’estrazione dello zolfo e soprattutto per il suo trasporto all’esterno della solfara attraverso piani inclinati (via operaia). L’immaginazione forse non riuscirà mai a fare comprendere fino in fondo le crudeltà che venivano perpetrate nei confronti di questi ragazzini.

È sufficiente visitare a Caltanissetta il cimitero dei carusi realizzato in memoria di una disgrazia avvenuta il 12 novembre 1881 nella miniera di Gessolungo, una delle più profonde della Sicilia, a causa di uno scoppio di grisù, innescato da una lampada ad olio. Qui vi morirono 65 operai. Nelle lapidi si leggono anche nomi di bambini di 8 anni. L’estrazione dello zolfo era frutto di uno sfruttamento della classe operaia sino a quando, dagli anni sessanta in poi del secolo scorso, non furono applicate tutta una serie di provvedimenti riguardanti la sicurezza negli ambienti lavorativi e la tutela dei diritti salariali e previdenziali degli operai. Adesso quello che rimane delle solfare sono le testimonianze di manufatti industriali dei siti minerari più importanti sparsi sul territorio. Sono le strutture classificate come archeologia industriale. Il senso stesso del manufatto industriale è quello che il suo degrado sarà sempre lento ma inesorabile. Le strutture minerarie emergenti, come ho accennato prima, sono oggetto di un mio lavoro fotografico realizzato tra il 1986 e il 1991 che in modo diretto ci trasmettono una serie di messaggi legati al passato, al presente e proiettate ad una futura memoria.

Ho realizzato questo lavoro senza una committenza ed è stato un impegno notevole fotografando i siti minerari solfiferi di tutta la Sicilia dove ancora erano presenti strutture significative composte da edifici in muratura e naturalmente da tutti gli impianti industriali di estrazione, lavorazione e trasporto nei bacini interessati (Catania e Porto Empedocle-Ag). Adesso a distanza di tutto questo tempo le strutture fotografate hanno subito un forte degrado naturale ed alcuni siti negli anni sono stati saccheggiati e parte delle strutture demolite (nonostante i vincoli posti dalla Regione Sicilia). Negli anni successivi ho continuato a fotografare questo continuo degrado naturale e della mano dell’uomo ma paradossalmente la documentazione è diventata sempre più povera. Le foto realizzate venivano stampate nel formato 18x24 cm in analogico e in parte ingrandite negli anni stessi delle riprese. Questo lavoro è rimasto in archivio per più di trent’anni, adesso è stato promosso un progetto di questo studio che comprende mostre, pubblicazioni, filmati e programmi di divulgazione.

Attilio Scimone

Angelo Zzaven: Nell'ambito delle tue produzioni artistiche particolare importanza assumono i tuoi libri d'arte. A volte copie uniche, realizzate a mano con materiali originali e foto stampate su carte molto prestigiose. Me ne puoi parlare?

Attilio Scimone: Nella mia attività artistica ho dato molto importanza alla realizzazione di libri d’arte. Vedo questo tipo di libro come un album fotografico da sfogliare in cui sono inserite fotografie originali, testi critici, appunti manoscritti e condividere nella lettura con poche persone. Questo senso di condivisione ti porta a discutere su una piccola sequenza di immagini e molte volte ho notato che nell’attenzionare una data opera si comincia ad ampliare la discussione sulla fotografia in tutte i suoi aspetti per poi ritornare sulle foto del libro. Questo lo trovo straordinario e ti fa uscire dalle aride trappole dei social e di tutti quei commenti preconfezionati, di convenienza e molte volte perfettamente inutili.

La particolarità di questi libri che realizzo è quella appunto che sono realizzati utilizzando sempre delle fotografie analogiche, raramente utilizzo stampe fine art, che permettono di creare la giusta tensione che si deve avere nel rispetto dell’immagine che viene sottoposta alla visione e, insisto, alla condivisione. Ho realizzato libri d’arte di grande formato cm 50x70 in cui sono inserite foto originali 30x40 cm, altri nel formato 30x30 cm. Alcuni edizioni sono veri e propri libri d’artista in cui la caratteristica che li rendono unici, nella grande famiglia delle creazioni artistiche, è l’esigenza di toccarli, manipolarli, percepirli attraverso tutti i 5 sensi per poterli fruire e comprenderne il significato. Normalmente i libri d’arte che realizzo sono in copia unica o al massimo edizione di tre.

Vorrei citare il libro d’artista “Suoni” un lavoro dedicato al mondo della musica, un mix di fotografie analogiche, pellicole originali di grande formato e testi di brani musicali edito in copia unica e che per me rappresenta la sintesi del mio mondo fotografico. Attualmente sto lavorando ad un libro d’arte dal titolo “Tree stories”, un mio dialogo personale con la solitudine degli alberi nel centro Sicilia.

Attilio Scimone

Angelo Zzaven: Mi parli di un aneddoto curioso, legato alla fotografia, di cui ti ricordi?

Attilio Scimone: Nel 2005 nella mostra Percorsi Etici - Galleria d’Arte Moderna “Le Ciminiere”, Catania avevo esposto un corpo di opere realizzate tra il 1980 ed il 2004 riguardanti un mio lavoro sulle incisioni fotografiche (Grignotage). Il Grignotage è un procedimento fotografico che permette di ottenere immagini fotografiche in B/N simili all’incisione. I riferimenti storici di questa tecnica sono riconducibili a Mr Marriage che rese pubblica la formula del procedimento nel 1948. Essa consisteva nel trattare chimicamente l’immagine fino al rigonfiamento della gelatina nelle parti esposte. Negli anni ‘70 del secolo scorso si sono interessanti al Grignotage Deni Brihat e J.P.Saudre. I due fotografi hanno operato artisticamente in ambiti diversi. La questione tecnica si risolve in un concetto molto semplice: ottenere il rigonfiamento della gelatina nelle parti non esposte dell’immagine in modo da poterla asportare o “muoverla” sino ad arrivare al supporto cartaceo. Parlando di una tecnica che riguarda il processo incisorio nell’arte consiste in una matrice di metallo che può essere incisa direttamente, oppure incisa con acidi. L’inchiostro di stampa penetra nei solchi formatisi per azione del bulino o dell'acido e poi il disegno viene trasferito su un supporto cartaceo. In fotografia l’incisione avviene con l’asportazione degli alogenuri non esposti dal supporto della carta. Quindi una grande differenza. In quella mostra ho avuto un pubblico eccezionale ad un certo punto una insegnante che doveva senz’altro essere esperta in tecniche grafiche mi chiese come ottenevo quelle immagini su carta fotografica. È difficile far comprendere questa tecnica a chi non ha le minime basi di fotografia e cercai di spiegare in maniera molto semplice come ottenevo quei risultati e che con l’incisione tradizionale nell’arte poteva condividere solo alcune parti della lavorazione. Dopo molte discussioni non riuscii nell’impresa, ma la cosa che mi stupì particolarmente fu che restò convinta che io, in un certo senso, cercavo di rifiutare la sua verità e le sue conoscenze tecniche e che volessi a tutti i costi appropriarmi di un processo che non poteva esistere.

Angelo Zzaven: C'è qualche progetto che ti piacerebbe realizzare in futuro?

Attilio Scimone: In questo momento non ho un progetto ben preciso dato che sto lavorando su tre già in fase di strutturazione: Tree stories, Il paesaggio delle Solfare e La Valle del Salso-Imera Meridionale. Comunque ti posso dire che da un pò di tempo sto elaborando una serie di immagini che riguardano il mio paesaggio del Centro Sicilia. Questa nuova ricerca dovrebbe portarmi a valutare elementi paesaggistici nelle loro essenza minimale, particolari che soprattutto nella stagione estiva sembrano insignificanti ma che in effetti hanno una forza grafica e compositiva molto complessa. Si tratta in effetti di rendere questa complessità in una fotografia essenziale. Il lavoro penso di stamparlo in analogico in formati molto grandi in modo da avere una sorta di visione al di fuori di ogni realtà visiva. Forse una sfida. Vedremo…

Angelo Zzaven: Caro Attilio, la nostra chiacchierata volge al termine. Sicuramente ci sono tante cose che non ti ho chiesto, domande che magari avresti voluto che ti facessi, ecco, vorrei chiederti di rispondere a una domanda che non ti ho fatto. Ti ringrazio di cuore per tutto.

Attilio Scimone: Sono io che ti debbo ringraziare per l’opportunità che mi hai dato anche per riflettere su molti argomenti che mi stanno al cuore. In questo momento preferisco non farmi domande perché ovviamente dovrei dare delle risposte alle quali non riesco a rispondere immediatamente.


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