FRANCESCA DELLA TOFFOLA

“continuo ad inseguire i miei sogni realizzando la fotografia che più mi piace, quella che “mi ha salvato la vita”, quella che mi lascia libera di esprimermi senza parole, quella che racconta i miei stati d’animo, quella che mi fa sentire più vicina alla mia parte interiore, alla mia parte invisibile, alla mia anima”


Angelo Zzaven: Francesca, ho conosciuto te e la tua fotografia nella mostra “Corpi solitari. Autoscatti contemporanei” a Noto nel 2014, ma conosco veramente poco di te, di quello che fai nella vita, di cosa ti abbia spinto ad operare nel mondo delle immagini. Mi parli di te?

Francesca Della Toffola: Oggi sono un’insegnante di Grafica e Comunicazione, ho la fortuna di insegnare anche la storia e la tecnica della fotografia e di stare con giovani studenti quasi sempre motivati.

La passione per la fotografia nasce al liceo poi si rafforza durante gli anni universitari a Venezia. Seguo le lezioni di Italo Zannier e mi laureo in lettere moderne con una tesi sulla fotografia di Wim Wenders. Appena laureata però non ho le idee chiare sul da farsi se non quella di proseguire con la fotografia, così frequento alcuni workshop fotografici tra cui quello sulla creatività tenuto da Franco Fontana a Massa Marittima. È da quella esperienza che capisco che sarà la fotografia a guidarmi. Quello stesso anno (2001) vado a Milano per frequentare l’Istituto Italiano di fotografia e poco dopo inizio la mia strada come libera professionista: molti matrimoni, servizi di ritratto e still life per aziende della zona di Treviso. Nel frattempo continuo ad inseguire i miei sogni realizzando la fotografia che più mi piace, quella che “mi ha salvato la vita”, quella che mi lascia libera di esprimermi senza parole, quella che racconta i miei stati d’animo, quella che mi fa sentire più vicina alla mia parte interiore, alla mia parte invisibile, alla mia anima.
Da anni tengo corsi di fotografia anche nelle scuole ed è stato proprio durante uno di questi che ho capito che l’insegnamento, in particolare della mia passione, poteva diventare il lavoro e lasciare più libera la “mia fotografia”.

Angelo Zzaven: Quella che “mi ha salvato la vita”, bella affermazione da cui capisco molte cose, anche a me capita di dire che la fotografia mi ha salvato la vita... Quanto pensi possa essere importante questo aspetto “terapeutico”, per i giovani che si approcciano a intraprendere un percorso formativo nella fotografia e nell'arte in generale?

Francesca Della Toffola: Quante volte ci siamo trovati impacciati e inadeguati nell’esprimere una sensazione o anche un’idea …Non sempre si trovano le parole giuste. L’arte è espressione, è linguaggio, è bellezza, è universale…Non so se può aiutare a “guarire” ma certamente aiuta ad esprimere i sentimenti più nascosti, le emozioni quelle invisibili…L’interiorità molto spesso è soffocata dalla nostra parte esteriore, quella sociale che vuole sempre essere all’altezza, che si nasconde dietro esuberanza e finta sicurezza. Riscontro ogni giorno tra i miei studenti atteggiamenti di questo tipo, sono felice se riescono a lasciarsi andare almeno un po’, se riescono ad “esporre” le loro fragilità, le loro insicurezze, le loro domande attraverso la fotografia: questi diventano momenti di crescita condivisa.

Francesca Della Toffola

Angelo Zzaven: Francesca, hai accennato a Wim Wenders e a Franco Fontana, ci sono stati altri artisti, non necessariamente del mondo della fotografia, che hanno influenzato i tuoi lavori?

Francesca Della Toffola: Nel mio percorso le influenze sono state molte, alcune consapevoli, altre inconsapevolmente nate da studi o esperienze del passato. Sicuramente fin dall’inizio le immagini di Francesca Woodman influenzano la mia fotografia: il suo modo di raccontare gli stati d’animo attraverso l’autoritratto, la sua malinconia sono vivi e mi emozionano ancora. Il suo è stato il primo libro di fotografia che ho acquistato. In quel libro c’era tutto quello che avevo sempre cercato: le emozioni più nascoste e quelle indicibili si facevano visibili. Da quel momento il mio corpo, il suo peso, la sua forma diventano il luogo con cui comunicare le mie sensazioni.

Anche la Body art è stato un argomento di mio interesse, pur non condividendo le ricerche più estreme: non cerco la sofferenza del corpo ma la leggerezza. Tra gli autori che mi affascinano: Bill Brandt e i suoi corpi deformati e dilatati; Arno Rafael Minkkinen con il suo corpo duttile, adattabile come la natura stessa e poi Jerry Uelsmann perché trasforma il corpo in un contenitore di racconti, di sogni. Quest’ultimo in modo inconsapevole credo abbia influenzato “Accerchiati Incanti”, non solo per la tecnica del fotomontaggio.

L’arte cinematografica, in particolare i film di Wim Wenders e di Andrej Tarkowski, hanno influenzato il lavoro “The black line series” nella riflessione sul tempo, nell’attenzione al paesaggio, all’acqua e poi nell’utilizzo di immagini composte in dittici e trittici: una singola immagine non mi basta più. La poesia mi accompagna da sempre, lo “spleen” di Baudelaire, le “pietre” di Ungaretti, gli “ossi di seppia” di Montale e poi tra i contemporanei il “super-cadere” di Andrea Zanzotto, “le cose della terra” di Antonia Pozzi. Vorrei avere la cura e il rispetto verso la fotografia come loro verso la parola, capaci di inventare sempre qualcosa di nuovo assemblando cose reali. Non so se mi influenza la poesia ma trovo in lei conferma alle mie emozioni. Anche il teatro ho molto amato, penso a Tadeuz Kantor e i suoi manichini, memoria del passato, penso a Pina Bausch e il suo rapporto con lo spazio e il tempo vissuto realmente e poi la filosofia il mio adorato Arthur Schopenhauer e “il velo di maya”.

Francesca Della Toffola

Angelo Zzaven: “... il tempo della morte / morire, dormire forse, forse sognare... il tempo non esiste / noi siamo il tempo” ho estrapolato queste parole dalla tua poesia “ascolto”, nata insieme al lavoro “Appesi all'attimo”. Qual è il tuo rapporto col tempo?

Francesca Della Toffola: Non è facile rispondere a questa domanda. Da quando fotografo il tempo è stato alla base delle mie riflessioni, all’inizio in modo inconsapevole. Nel progetto e libro “The black line series”, in realtà, era il rapporto con lo spazio che mi interessava: il corpo nello spazio e lo spazio fisico del formato dell’immagine. Andare oltre la linea nera significava considerare, nel formato definitivo, anche quello spazio nero non impressionato, uno spazio esistente che non era esistito perché non aveva lasciato traccia. Nel tempo ho compreso che quella linea nera, quella porzione di spazio nero, non era altro che lo spazio di tempo non impressionato ma esistente, che aveva lasciato una traccia del passato.

Così piano piano si sviluppa il capitolo Appesi all’attimo da cui nasce la poesia “ascolto” di cui hai preso la citazione. Se prima il tempo è vissuto semplicemente nella sua linearità fatta di passato, presente e futuro dove con l’immaginazione e nei sogni possiamo tornare nel passato e allo stesso tempo viaggiare nel futuro, scopro il tempo nella sua circolarità: siamo noi il tempo, siamo noi a vivere in questo determinato momento, siamo noi che rendiamo il presente passato nostalgico o futuro ansioso e siamo noi che possiamo tornare indietro e poi di nuovo avanti. Solo il corpo può diventare il limite ma la mente è qui e ora e il tempo è qui e ora.

Se nei capitoli precedenti (Stanze, Pelle a pelle, Immobili evasioni) rivivo i luoghi della memoria come le stanze dove ho vissuto o i luoghi a me cari come la villa Onigo ricca di storia e storie passate, nell’ultimo capitolo Appesi all’attimo divento io stessa un orologio, le braccia e le gambe lancette del mio tempo, sono in ascolto, sono nel ciclo della vita, nel giorno e nella notte, sole e luna si accendono e si spengono ma ritornano. Certo il corpo, la pelle, i capelli cambiano, il corpo tutto rallenta ma anche il tempo rallenta….le ore in certi momenti possono non passare mai. Credo che la cosa più importante sia mettersi in ascolto del proprio tempo, del proprio ritmo, ascoltare la nostra parte più nascosta, l’anima.


Angelo Zzaven: Qualche tempo fa mi hai omaggiato del tuo splendido volume “Accerchiati incanti”. Come nasce e si concretizza questo interessante progetto, finalizzato poi nel libro? Da cosa nasce la forma rotonda?

Francesca Della Toffola: Nel libro “The black line series”, come già accennato, ho lavorato con il mio corpo inserito negli spazi interni, in particolare le stanze di case dove ho vissuto e poi la nuova casa da costruire e ancora luoghi ricchi di storia come la Villa Onigo. Nasce, però, la necessità di uscire dagli spazi interni, artificiali che racchiudono, fatti di spigoli, angoli, geometrie, muri, pareti, finestre, crepe. La natura da sempre fa parte di me, perché non immergermi in essa come facevo da bambina, a piedi scalzi? Nasce semplicemente così “Accerchiati Incanti”: diventare un tutt’uno con la terra, i fiori, l’erba, la neve. Finalmente il desiderio di perdere peso, inseguito già nel progetto precedente (the black line series) attraverso i tagli del corpo e l’utilizzo dell’ombra, si fa veramente concreto. In “Accerchiati incanti” divento sempre più leggera, divento quasi trasparente, non esiste più il corpo con il suo peso specifico ma solo una forma che si plasma, un’impronta che resta: siamo fotografie, siamo brevi apparizioni. Capisco con questo progetto il profondo desiderio di ricongiungermi con la mia natura femminile, fare pace con me stessa, accettarmi fino in fondo con le mie fragilità, debolezze, oscurità.

In modo molto spontaneo il formato della fotografia si fa circolare, più vicino simbolicamente alla madre terra, alla femminilità, alla natura, alla mia stessa idea di tempo.

Da sempre mi interessa il formato delle fotografie che realizzo, il rettangolo di dimensioni standard della pellicola 35mm mi è sempre stato un po’ stretto, ho cercato di andare oltre la linea nera aggiungendo pezzi, allungando il rettangolo fino ad arrivare a cercare una forma completamente diversa. Il formato circolare, inoltre, è molto più vicino alla nostra visione oculare, anche se ormai non ce ne rendiamo più conto.

Francesca Della Toffola

Angelo Zzaven: In molti progetti hai lavorato col tuo corpo, inserendo te stessa nella scena e direi che nella tua fotografia, questo aspetto è di fondamentale importanza. Quali sono le motivazioni profonde di questa scelta?

Francesca Della Toffola: Credo di avere un rapporto con il mio corpo buono, ho imparato ad accettarne le imperfezioni. Da sempre ne sento comunque la pesantezza, nel senso che spesso veniamo giudicati secondo il nostro aspetto fisico, sembra non andiamo mai bene. Molte volte questo diventa una barriera, un muro che blocca la comunicazione, la voglia di stare insieme. Ecco questo corpo, il mio, vuole rappresentare quello di molti altri che hanno questa sensazione. Sentire il corpo come una gabbia, voglio alleggerirlo ecco perché in molte immagini lo incontrerete tagliato, immerso nell’acqua, fattosi ombra o resosi completamente trasparente. Voglio emerga la parte invisibile, quella leggera che non si vede ma che ha un estremo bisogno di domandare senza limiti, senza ostacoli, libera.

Poi penso che senza di esso, il corpo, ovviamente non potremmo vivere pienamente. Utilizzare questa meravigliosa struttura che ci permette di respirare, di ascoltare, di sentire i profumi, i sapori, di vedere i colori, di amare, di toccare. Sembra una contraddizione la mia ricerca di trasparire ma per farlo ho bisogno del corpo: quando mi immergo nei miei paesaggi significa sentire il calore delle foglie, il fastidio della polvere, il freddo dei pavimenti, la morbidezza dell’erba, sentire la vita.

Nel “Il cielo sopra Berlino” l’angelo Damiel decide di scendere dal cielo e diventare essere umano per poter amare. Non appena tocca terra gli cade in testa un pezzo di armatura che gli provoca una ferita: è il peso del corpo, per la prima volta sente il sapore del sangue e vede il suo colore. L’armatura verrà scambiata, presto, con un cappotto: è ancora freddo.

Francesca Della Toffola

Angelo Zzaven: In una società sempre più sommersa dalle immagini, sapere decodificare informazioni visive diventa di fondamentale importanza. Hai detto di insegnare grafica e comunicazione, ti piacerebbe che il linguaggio visivo rientrasse tra le materie di studio dei prossimi programmi scolastici?

Francesca Della Toffola: Credo sia di fondamentale importanza insegnare il linguaggio visivo a scuola. I ragazzi fin da piccolissimi hanno a che fare con le immagini (televisione, telefono, computer, libri) eppure quando li incontro nell’età adolescenziale molti non riescono a descrivere quello che vedono, sono incapaci di riconoscere le illusioni nascoste tra forme visive e verbali. Ripristinare l’ora di storia dell’arte ad esempio è un inizio e inserirla anche negli istituti tecnici sarebbe molto importante.

Angelo Zzaven: Hai un sogno nel cassetto che ti piacerebbe realizzare in futuro?

Francesca Della Toffola: Una mostra con la collaborazione di un museo importante magari a New York o a Boston.

Francesca Della Toffola

Angelo Zzaven: Francesca, la nostra chiacchierata volge al termine, per finire vorrei che mi rispondessi a una domanda che non ti ho fatto e ringraziare per la pazienza e la disponibilità.

Francesca Della Toffola: Non ti sei ancora stancata di utilizzare l’autoscatto?

La fotografia è un linguaggio vivo, la realtà è enorme e imprevedibile e la fotografia riesce a catturarne una piccolissima parte. Con l’autoscatto la realtà diventa ancora più imprevedibile, perché non so cosa succederà al momento dello scatto, posso prevederlo ma c’è sempre la casualità ad intervenire: un gatto curioso o semplicemente una foglia che cade o ancora un movimento improvviso del corpo stesso. Tutto questo rende la fotografia stupefacente nel senso che genera stupore, meraviglia, dal visibile all’invisibile.


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