FILIPPO VENTURI

        Pensando alla situazione che caratterizza la società nordcoreana, fortemente influenzata da uno dei regimi totalitari più duri al mondo, che isola di fatto il Paese e i suoi abitanti, ho pensato di ricorrere ad una metafora per esprimere questa condizione. Partendo da scene della vita quotidiana, ho inserito un elemento estraneo, sotto forma di insetti che assumono dimensioni sempre più grandi e invadenti, al punto che sembrano avere il controllo sulle persone. Infine, queste si trasformano a loro volta in insetti, completando così il dominio subìto.



Angelo Zzaven: Filippo, quando ho incontrato il tuo lavoro “Broken Mirror” sul web sono rimasto sorpreso. Io ti conoscevo come fotografo documentarista, non mi aspettavo un lavoro fotografico implementato dalla tecnologia IA (Intelligenza Artificiale). Eppure quello che stavo vedendo era un lavoro realizzato attraverso il software Midjourney, di notevole fattura per essere un primo esperimento. Da lì la mia curiosità e la richiesta per questa chiacchierata... ma andiamo per ordine. Chi é Filippo Venturi? Mi parli un po' di te?

Filippo Venturi: In generale direi che sono una persona curiosa che, quando si appassiona a qualcosa, ci si dedica interamente allo scopo di comprenderla e imparare a padroneggiarla. Nel caso del mio incontro con la fotografia, questo è avvenuto piuttosto tardi, nel 2008, quando avevo già 28 anni. Dietro questo evento non c'è purtroppo una storia romantica o l'ereditare una vecchia fotocamera di un parente, ma un semplice "click" che è scattato dentro di me e che ha cambiato il modo di vedere la fotografia. Spesso capita che abbiamo sotto gli occhi qualcosa che, soltanto in un certo preciso momento, la riconosciamo. In quell'anno ho smesso di essere un semplice sporadico utilizzatore di compatte per immortalare qualche festa con amici o evento di famiglia, e ho abbracciato la fotografia nella sua interezza.

Ho iniziato a seguire dei corsi e dei workshop, a vedere mostre e sfogliare e leggere più volte i cataloghi dei miei fotografi di riferimento nelle varie fasi che ho attraversato fino a quando, due anni più tardi, ho iniziato a svolgere i primi lavori fotografici: spesso reportage di eventi sportivi, musicali e teatrali. La fase di studio, a dire il vero, continua ancora oggi perché cercare stimoli e nuove idee, ma anche vedere per tempo le nuove tecnologie, le potenzialità e anche quali ostacoli comportano, è fondamentale per non rischiare di chiudersi nella propria bolla di relax, dove abbiamo, sì, le nostre certezze e rassicurazioni, che rischiano però di diventare anche le nostre catene.

Dal 2012 ho iniziato a lavorare per progetti fotografici, quindi lavori che non si limitavano a documentare un qualcosa che ha un suo naturale inizio, svolgimento e termine, ma che prevedono l'esplorare una tematica, un problema sociale o altro, al fine di produrre una sequenza di fotografie capaci di comunicare all'osservatore la storia, ma anche le riflessioni e i quesiti che intendo sollevare. Altri due anni e arriviamo al 2014, quando ho iniziato anche a collaborare con giornali e riviste italiane e straniere: una milestone nel mio processo di crescita.

Oggi tutte queste esperienze sono confluite nel fotografo che sono: da un lato continuo a documentare eventi, lavorando per una squadra di rugby e una di calcio, seguendo spettacoli teatrali e altro, che rappresentano lavori costanti e meno complessi. Continuo a collaborare con riviste e magazine, che spesso consentono di far vivere più a lungo i miei lavori, avendo un'eco che si propaga per mesi o anche anni. Infine lavoro ai miei progetti, anche autofinanziandomi, nel caso ritenga che la storia che voglio affrontare sia importante.

La fotografia può essere un lavoro, un linguaggio di comunicazione ma anche una terapia e un modo per affrontare certi periodi. Nel caso della pandemia, alla frustrazione iniziale di non poter uscire di casa (nelle prime settimane non avevo assegnati dai giornali), meno che mai viaggiare all'estero come ero abituato, è seguita una fase di affidamento totale verso questo mezzo; ho iniziato a documentare la vita della mia famiglia, in particolare di mio figlio, quella dei vicini di casa, quella dei rider, pian piano espandendomi, fino ad arrivare agli ospedali e questo ha funzionato su diversi livelli. Ho messo a fuoco cosa stava accadendo a me e attorno a me; ho prodotto dei lavori che, soprattutto a marzo e aprile 2020 quando la pandemia sembrava colpire soprattutto l'Italia, hanno trovato l'interesse di molti giornali internazionali e quindi anche un ritorno economico che ha coperto quello dei lavori che erano saltati; ho incontrato le persone e ho potuto approfondire le loro esperienze e paure; infine ho soddisfatto la necessità di tramandare le storie, cioè un atto di che l'uomo ha nel proprio DNA.

Filippo Venturi

Angelo Zzaven: Mi incuriosisce quel “click” che ti è scattato dentro. Spesso ciò avviene per qualche circostanza particolare: perché si senta l'esigenza di documentare qualcosa, perché si rimane affascinati da un paesaggio, perché si consapevolizzano le potenzialità artistiche di quello strumento, ecc... qual è stata la tua motivazione profonda, ti va di parlarmene?

Filippo Venturi: Nel mio caso credo che quel "click" sia stato dovuto all'incontro fra una necessità che avevo, cioè quella di trovare un mezzo per esprimermi, e la fotografia, quando l'ho riconosciuta come un linguaggio di comunicazione, osservando alcuni lavori di reportage nel loro complesso e non più, quindi, come singolo scatto preso a sé. A quel punto, folgorato da quella scoperta, ho iniziato a studiarla (questa fase di studio nel tempo può assumere forme diverse e quindi, in un certo senso, non termina mai) e a metterla in pratica in diverse forme: per esprimere me stesso, per incontrare altre persone e per raccontare storie.

Angelo Zzaven: Il periodo pandemico che abbiamo attraversato è stato drammatico e particolare per tutti. Le difficoltà legate agli spostamenti, l'impossibilità di fare lunghi viaggi hanno sicuramente condizionato i tuoi programmi, ma so che non sei rimasto inattivo, me ne vuoi parlare?

Filippo Venturi: Come tutti, ho sofferto il lockdown. Oltre all'impossibilità di uscire di casa liberamente, però, ho sofferto nei primi giorni, in cui non avevo nemmeno assegnati dai giornali, l'impossibilità di documentare quell'evento epocale.

Questa situazione si è sbloccata dopo pochi giorni quando, dopo aver ordinato le pizze a domicilio su proposta della mia compagna, ho iniziato a riflettere su cosa dovessero provare i rider a fare le consegne in una città deserta, andando di continuo in casa di sconosciuti che potevano essere contagiati da questo nuovo virus. Per fortuna il rider che ci ha consegnato le pizze si è dimostrato molto disponibile e sono riuscito a fargli un ritratto sul cancello di casa mia (il confine del mio nuovo mondo e la soglia oltre la quale lui preferiva non andare) e una breve intervista. A quel punto ho capito che potevo lavorare su questo tema e mi è venuta l'idea del lavoro che ho poi intitolato "Riders at the time of Coronavirus", cioè l'effettuare decine di ordini a domicilio (con dietro un certo lavoro a livello organizzativo per cercare di evitare di incontrare nuovamente gli stessi rider già presenti nel mio lavoro) per poter raccogliere le testimonianze di questi lavoratori.

Dopo due settimane avevo ritratto e intervistato 40 rider sul cancello di casa mia; la cosa aveva suscitato un certo interesse e nel giro di pochi giorni venne pubblicato su vari giornali come The Guardian e Il Sole 24 Ore. La cosa più toccante di quel lavoro è stato vedere quanto loro fossero sorpresi dal mio interesse nei loro confronti. Su 43 rider incontrati, soltanto 3 hanno rifiutato, mentre i restanti 40 si sono resi reperibili anche successivamente al nostro incontro, per ampliare le interviste che, al momento della loro consegna, erano per forza di cose piuttosto stringate per non rallentarli troppo nel lavoro.

Ritrovata la fiducia, ho dedicato le mie giornate al racconto di quel periodo sotto diversi punti di vista: il diario domestico incentrato in particolare su mio figlio di 2 anni, le nuove abitudini dei vicini di casa, il mondo del teatro completamente abbandonato, i parchi per i bambini dove i giochi erano sigillati per impedirne l'utilizzo, i Covid Hotel, la visite dei malati di Covid-19 a domicilio delle USCA e, infine, i reparti Covid in ospedale. Tutto questo lavoro, a livello più materiale, mi ha aiutato a sopperire ai mancati guadagni dei lavori che erano saltati a causa delle restrizioni, ma soprattutto mi ha permesso (come dicevo nella risposta precedente) di prendere coscienza di cosa stavo vivendo, di incontrare le persone e raccoglierne le storie.

Per me il lockdown ha rappresentato un test difficile. Abituato a viaggiare, a documentare fenomeni sociali duraturi e non strettamente legati all'attualità, ho dovuto riorganizzarmi in fretta. Nei primi mesi sembrava che, oltre alla Cina, il virus fosse limitato all'Italia, e quindi avevamo gli occhi di tutto il mondo su di noi; mi sono ritrovato in mezzo all'attualità e non potevo che raccontarla.

Filippo Venturi

Angelo Zzaven: … incredibile come da una situazione complicata sei riuscito a riorganizzare e riprendere in pugno, la tua vita e il tuo lavoro... Le pizze le mangiavi tutte?

Filippo Venturi: … ehehe questa è una domanda che mi hanno già fatto :)

Io e la mia compagna abbiamo mangiato più pizze del solito in quei giorni ma, per fortuna, in quel periodo molti negozi di ogni tipo si erano attrezzati per le consegne a domicilio e quindi potevamo alternare i prodotti: comprando anche libri, birre artigianali, verdura fresca a km0, gelato artigianale, sushi, cosmetici e così via. In quelle due settimane ho comunque speso circa 500 euro per questi ordini ma, già dopo i primi 5 ritratti, The Guardian aveva apprezzato l'idea e mi aveva confermato che me lo avrebbero comprato e pubblicato quando fossi arrivato a 20 ritratti (cifra a cui sono giunto dopo 4 giorni) e quindi era una spesa che avrei recuperato.

Angelo Zzaven: Sappiamo quanto sia difficile entrare e soprattutto fotografare in Corea del Nord, un paese impossibile, situato all’ultimo posto della classifica sulla libertà di stampa, in cui il popolo è controllato in modo sistematico fin dalla prima infanzia. Immagino non sia stato semplice per te realizzare il tuo importante e prestigioso lavoro Korean Dream. Mi racconti com'è andata, e quali problemi hai dovuto affrontare?

Filippo Venturi: Dopo il lavoro svolto in Corea del Sud "Made in Korea", mi è venuto naturale pensare che sarebbe stato interessante farne uno anche al Nord, così da comporre i due capitoli di un progetto più ampio. Il primo ostacolo è stato trovare un intermediario che potesse aiutarmi nel tenere i contatti con le autorità nordcoreane, dato che volevo andarci col visto giornalistico. L'ambasciata nordcoreana non mi ha mai risposto e quindi le ricerche si sono protratte per mesi finché non ho trovato la persona giusta, nell'agosto 2016. Tramite questo contatto, che aveva buoni rapporti con la Corea del Nord, ho inoltrato un report nel quale spiegavo chi ero e cosa avrei voluto fare e visitare in Corea del Nord. Questa procedura ha richiesto diversi mesi fino a quando, a inizio 2017, ho avuto l'OK dalle autorità nordcoreane.

A questo punto questo contatto ha iniziato a prepararmi per il viaggio, spiegandomi nel dettaglio tutto ciò che avrei dovuto fare o non fare, sia nelle cerimonie durante le quali la mia cura nel seguirle avrebbe dimostrato quanto rispetto e quanta considerazione avessi verso il popolo nordcoreano e il loro leader, e sia nello svolgimento del mio lavoro che sarebbe stato condizionato da diversi fattori. Uno di questi era la presenza di microfoni in albergo, dove alloggiavo assieme ad una giornalista che si era aggregata al mio viaggio, e sarebbe stato quindi prudente evitare discorsi sulla politica, fare riferimenti a Trump (nel 2017 la tensione con gli USA era ai massimi livelli e questa fu una sfortuna, perché era più stressante lavorare col rischio imminente di una guerra, e una fortuna, perché al rientro il nostro lavoro sarebbe risultato estremamente attuale e anche difficile da replicare, almeno in quei mesi), fare battute su Kim Jong-un e in generale evitare discorsi che sarebbero potuti essere fraintesi da chi ci ascoltava. Lavorare in queste condizioni (e in altre che espongo di seguito) è stato piuttosto stressante.

Un altro fattore molto invasivo è stato che potevamo uscire dall'albergo soltanto con le 4 guide che ci erano state assegnate (per la precisione uno era l'autista, uno un fotografo incaricato di controllare me e documentare cosa facevo e cosa fotografavo e due guide che ci davano informazioni ma erano anche quelle più subdole perché cercavano comunque di carpire se avevamo qualcosa da nascondere oppure facendo a me e alla giornalista le stesse domande, in momenti diversi, quando non eravamo vicini, per capire se davamo le stesse risposte). A livello pratico, quindi, ci siamo trovati a vivere quel periodo in condizioni analoghe ai semplici cittadini nordcoreani: sorvegliati, isolati dal mondo (non c'era internet per come lo intendiamo noi e le uniche telefonate che potevo fare erano quelle dai telefoni pubblici in albergo) e con fonti di informazione strettamente controllate e limitate.

A livello fotografico, invece, il tema da me scelto, cioè i giovani e i luoghi in cui venivano formati e che frequentavano, non ha subìto particolari restrizioni perché probabilmente i segni della propaganda erano talmente comuni e diffusi che, per le mie guide, non avevano nulla di anomalo, anzi. Il fotografo, in particolare, era più preoccupato che potessi fotografare dei segni di degrado di Pyongyang oppure, quando uscivamo e giravamo per le campagne, che fotografassi militari svolgere lavori nei campi o comunque lavori che solitamente non spetterebbero loro.

Filippo Venturi

Angelo Zzaven: Filippo, veniamo all'argomento che ha destato la mia curiosità e che mi ha spinto verso questa chiacchierata. Come nasce il progetto Broken Mirror?

Filippo Venturi: Ho una formazione da informatico (sono laureato in Scienze dell'Informazione) e mi piace sperimentare cose nuove. Anche nei miei progetti fotografici cerco sempre tematiche o approcci il più possibile originali, quindi mi è venuto naturale avvicinarmi a Midjourney e agli altri software che ricorrono all'intelligenza artificiale per generare immagini, partendo da una descrizione testuale.

Chiaramente, come molti fotografi documentaristi e fotogiornalisti, sono preoccupato per quest'ennesimo strumento che, fra i tanti possibili usi, si presta bene a chi ha interesse a generare fake news per manipolare le persone o comunque confondere la realtà e metterla in discussione.

I miei primi esperimenti, che risalgono già a mesi fa, erano abbastanza deludenti e, a parer mio, non presentabili. Era già possibile, però, intuire che in tempi molto brevi questa tecnologia sarebbe maturata e migliorata. Provando Midjourney, a inizio anno, dopo centinaia di tentativi nei quali affinavo la mia descrizione testuale, ho iniziato ad ottenere risultati interessanti.

Non cercavo di riprodurre immagini al 100% realistiche (anche perché questi software presentano ancora imperfezioni nelle immagini che producono), ma abbastanza da non essere subito scambiate per non-fotografie. A quel punto mi è venuto spontaneo realizzare un lavoro sulla Corea del Nord, paese che, come già detto, ho visitato e ho approfondito di persona (al momento ho in corso un nuovo capitolo in cui raccolgo le testimonianze dei fuggitivi nordcoreani).

Pensando alla situazione che caratterizza la società nordcoreana, fortemente influenzata da uno dei regimi totalitari più duri al mondo, che isola di fatto il Paese e i suoi abitanti, ho pensato di ricorrere ad una metafora per esprimere questa condizione. Partendo da scene della vita quotidiana, ho inserito un elemento estraneo, sotto forma di insetti che assumono dimensioni sempre più grandi e invadenti, al punto che sembrano avere il controllo sulle persone. Infine, queste si trasformano a loro volta in insetti, completando così il dominio subìto.

Il risultato è il frutto di un compromesso fra me e l'intelligenza artificiale, che per quanto uno possa indirizzare e correggere, inserisce comunque alcuni elementi imprevedibili. Questa cosa è a suo modo più interessante rispetto ad un eventuale utilizzo dove puoi definire tutto, come farebbe un illustratore o pittore in una propria opera.

Angelo Zzaven: Fino ad oggi avevo visto solo esperimenti con questa tecnica, immagini slegate, belle, ma fini a se stesse. Il tuo è il primo lavoro, con i limiti di cui parli, che però è frutto di un'idea e che ha le caratteristiche di un lavoro completo. Lo vedo come uno sdoganamento di questa tecnica verso il lavoro autoriale. Che cosa ne pensi?

Filippo Venturi: Penso che, come già accaduto in passato, quando un procedimento/processo si semplifica (ad esempio la riproduzione della realtà con la fotografia anziché con la pittura), venga naturale per autori e artisti espandere altri aspetti progettuali o del mezzo stesso. I pittori, dopo la nascita della fotografia, hanno iniziato ad esplorare altre vie come il cubismo e l'impressionismo perché, a quel punto, potevano tralasciare la realtà. Lo smartphone, ad esempio, secondo molti avrebbe sminuito la fotografia perché l'avrebbe resa ancora più semplice e realmente alla portata di tutti mentre mi pare che, ancora oggi, sia ben distinguibile un progetto fotografico dall'uso della fotografia occasionale per raccontarsi sui social o condividerla con amici e parenti.

Non ho particolari timori relativi al processo creativo e al destino degli autori e degli artisti; bisognerà reinventarsi, ma è già accaduto in passato. Da fotografo documentarista penso di poter dire che testimoniare la realtà, le problematiche sociali, gli eventi, ecc. sia ancora lontano dal poter essere svolto da una intelligenza artificiale e quindi anche sul lavoro non ho particolari preoccupazioni. L'aspetto più delicato e che più mi inquieta è se, al crescere delle fake news (l'intelligenza artificiale può essere un'arma formidabile in più per chi specula su queste cose), seguirà una presa di coscienza collettiva del valore di una testimonianza affidabile, che provenga da un giornalista o un fotografo o un divulgatore e se le persone investiranno (abbonandosi, sostenendo, donando, ecc) nelle fonti di l'informazione di qualità, così come già fanno per l'intrattenimento.

Filippo Venturi

Angelo Zzaven: Leggo di pareri contrastanti dell'utilizzo dell’intelligenza artificiale, in molti affermano che il sistema sfrutta immagini presenti in rete coperte da diritto d'autore. Qual è il tuo pensiero?

Filippo Venturi: Da quel che ho potuto leggere in diversi articoli, sembra molto probabile che le librerie sterminate di immagini, che compongono i database dati in pasto alle intelligenze artificiali per “allenarsi”, siano spesso raccolte indiscriminatamente dal web o da archivi senza averne l'autorizzazione oppure con una autorizzazione obsoleta, fornita dagli utenti in tempi in cui ancora non era immaginabile questo tipo di utilizzo. Di sicuro questo aspetto andrà normato, sia per tutelare la volontà degli autori delle fotografie e sia per riconoscergliene (nel caso di consenso) i diritti, anche dal punto di vista economico.

Ritengo sia una materia molto complessa e non semplice da definire, basti pensare quanto spesso condividiamo nei nostri social network immagini, meme, video, ecc. di cui non siamo gli autori e quindi l'eventuale consenso che possiamo aver dato sull'utilizzo dei contenuti che condividiamo nei nostri canali, non potrebbe coprire anche i contenuti non prodotti da noi. Inoltre ritengo che definire in che percentuale un'immagine prodotta da una IA sia debitrice, ad esempio, verso Steve McCurry, sia molto arduo.

E' probabile che, almeno inizialmente, i colossi che stanno sviluppando queste intelligenze artificiali troveranno accordi economici con Getty, i grandi musei, i grandi artisti e altre realtà proprietarie di database di immagini (e non solo) molto importanti e/o vasti. Mentre, più in generale, credo che i vari Big Tech, che oltre a sviluppare una IA magari possiedono già dei social network (che sono database molto succulenti) possano inserire qualche riga, relativa allo sfruttamento dei contenuti per allenare tale IA, fra i termini che solitamente gli utenti accettano senza leggere.

Filippo Venturi

Angelo Zzaven: Pensi che in futuro potrai replicare un lavoro/esperimento simile a Broken Mirror?

Filippo Venturi: In base all'idea che mi sono fatto oggi - che non escludo di rivedere in futuro, dipende da come evolverà questo strumento - penso proprio di sì, pur mantenendo questi esperimenti e questi progetti su un binario parallelo alla mia attività di fotografo documentarista e conservando sempre un approccio onesto verso l'osservatore.

Angelo Zzaven: Filippo, ti faccio l'ultima domanda, prima però ti voglio ringraziare per la disponibilità e la gentilezza. In realtà vorrei che rispondessi a una domanda che non ti ho fatto.

Filippo Venturi: Estenderei la domanda a quale futuro andranno incontro le persone, che siano artisti, fotografi, scrittori e non, che è un interrogativo e una tentazione (quella della previsione) che assilla sempre tutti (me compreso).

In base a ciò che penso di sapere oggi e che potrebbe non coincidere con quel che saprò domani, direi che l'attività creativa sia una necessità umana che non andrà a perdersi nemmeno se ci saranno intelligenze artificiali migliori di noi nell'attuarla. Un altro bisogno umano è quello di tramandare le storie e l'informazione e ritengo che rimarrà un'esclusiva delle persone, ancora per qualche tempo. Infine direi che non dovremo cadere nell'errore di delegare all'intelligenze artificiale la previsione del nostro futuro, individuale o come società, innalzandola a oracolo o divinità


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