NELLA TARANTINO

Fotografo perché dal nero si svelino forme di esistenza, lampi di ricordo o di sogno. Cerco la bellezza, è il solo senso del vivere. E a volte la trovo… a volte devo solo spostare un velo, o semplicemente alzare lo sguardo e ritrovarli, i tanti volti amati. Perché ogni cosa ritorni”

 


 

Angelo Zzaven: Nella, cosa fai nella vita? Cosa ti ha spinto a operare nel mondo delle immagini?

Nella Tarantino: Ho sempre lavorato con le immagini, mi sono formata con gli studi di architettura e poi mi sono abilitata in Storia dell’arte. Usavo già la fotocamera ai tempi dell’università, come uno strumento di rilevamento e di conoscenza della città e dei suoi edifici e poi dopo, per il mio lavoro.

Forse non esiste un architetto che non sappia fotografare. Ho iniziato con una Olympus OM10.

Formata alla scuola dell’architettura dell’espressionismo, ho sempre seguito quella traccia che conduce dall’arte alla vita. Complice una condizione estrema di solitudine e di desolazione, ho percorso l’unica via possibile, quella di un’architettura fortemente simbolica, come un desiderio, come una nostalgia.

È solo da circa sei anni che mi sono appassionata sinceramente alla fotografia. Non so dirti come sia accaduto, forse solo da un bisogno, o da un insieme di circostanze, o forse da una ragione più profonda. Forse perché sentivo che presto avrei lasciato il mio lavoro di architetto.

Il mio imperativo interiore era così forte che, senza che io me ne accorgessi, mi stava spingendo a ribellarmi, a liberarmi di quel che io credevo di amare, e che, al contrario, gravava su di me con un senso crescente di pesantezza. In altri termini, a cercare di scoprire quel che io amavo davvero, a trasformare quel “dovere” in un senso di leggerezza. Finalmente ho sentito di aver trovato la mia strada.

La Fotografia mi ha restituito quella libertà che il mio lavoro mi levava, sempre di più.

Ora, credo di poter dire: io sono una fotografa.

Le Corbusier scriveva: “L'architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce. I nostri occhi sono fatti per vedere le forme nella luce: l'ombra e la luce rivelano queste forme; i cubi, i coni, le sfere, i cilindri e le piramidi sono le grandi forme primarie… La loro immagine ci appare netta… E senza ambiguità.“

Prima disegnavo edifici, ora disegno con la luce. Fotografare significa “scrivere con la luce”.

Un’impresa molto più difficile, quasi una sfida.

Angelo Zzaven: Caspita quanti spunti interessanti mi dai. Mi incuriosisce molto la tua capacità di essere riuscita ad affrancarti da una situazione penalizzante... è come se ti fossi liberata dal piombo che ti imperlava le ali e di volare verso la libertà e la creatività. E che questo corrisponda al fare fotografia è bellissimo. Interessante anche il tuo pensiero sulla forma, ecco la mia seconda domanda verte su questo, vista anche la tua formazione, che peso ha in percentuale, rispetto al contenuto, la forma nelle ultime tue immagini?

Nella Tarantino

Nella Tarantino: No, non direi penalizzante! È stato qualcosa che comunque ho amato molto. Non rinnego il passato. Oggi devo quella che sono a tutto quello che ho vissuto.

Quanto conta la forma?

Tutta l’arte si serve di un linguaggio (segno) che di per se è forma ma anche contenuto. La forma ha già in sé il contenuto, quando esprime un significato. In architettura forma e funzione nascono insieme. Così anche nella fotografia e in tutte le arti. Questo vale anche per la fotografia di reportage, come quella di Koudelka o di Robert Capa, o di Paolo Pellegrin, solo per citare qualche esempio. È impossibile affermare che conti di più l’una o l’altro. Senza l’espressione in forma, che è l’essenza, quel “quid” che informa il contenuto stesso, il contenuto non si darebbe artisticamente che nel banale comune. Ma sposterei l’attenzione dal concetto di “forma”, che inevitabilmente ci conduce al metodo dell’indagine linguistica e semiologica, a quello di “immagine” che mi sembra aprirsi a possibilità inedite e ad esplorazioni profonde nel campo dell’arte e della storia dell’arte. Penso all’idea di Pathosformel di Aby Warburg, in cui “non è possibile distinguere tra forma e contenuto perché designa un indissolubile intreccio di una carica emotiva e di una formula iconografica” (G. Agamben). E ancora, alla straordinaria e struggente lettura dell’immagine di James Hillman, per il quale l’immagine deve essere una via per riconoscere finalmente la nostra anima, risvegliare un altro sguardo per vederla. In un ribaltamento filosofico di visibile e invisibile, Hillman giunge a dire che “noi vediamo per mezzo delle immagini”, in loro risale la verità profonda, che attraverso il visibile impara a riconoscere le nostre vite, “le vie della tristezza, le vie di chi è caduto”. E questo dovrebbe essere, sempre, il compito di ogni “buona” fotografia

Angelo Zzaven: Noi siamo le nostre immagini?

Nella Tarantino: Mi accorgo quasi sempre, e non so dirti se nei paesaggi in cui mi perdo, siano essi luoghi o volti, figure, e, poi, nelle fotografie, di trovarmi di fronte, ogni volta a qualcosa di “familiare e di estraneo”, come se quei luoghi, quelle figure, quei volti, facessero da sempre parte del mio paesaggio più profondo, e nello stesso tempo, li vedessi per la prima volta, come luoghi sognati, figure e volti sconosciuti.

Noi siamo e diveniamo le nostre immagini quando sentiamo che esse sono riuscite ad inoltrarsi “in un tempo senza tempo per sviluppare all’infinito la poesia dello sguardo che è forma e segno dell’inconscio” (M. Giacomelli

Nella Tarantina

 

Angelo Zzaven: Mi hai detto che hai sempre lavorato con le immagini, inizialmente perché ti servivano per lo studio e il lavoro, ma quando hai consapevolizzato di aver fatto una fotografia tua, che non ti serviva per altro? C’è stato un fatto scatenante?

Nella Tarantino: È accaduto con molta naturalezza, quasi senza che me ne accorgessi.

Come se l’avessi trovata, come una fortuna, come si ritrova qualcosa che si è perduto, ma che si è molto amato, e che è riapparso da una sconosciuta lontananza.

Angelo Zzaven: Come se fosse già dentro di te, e andava solo riconosciuta. Quali film brani musicali o libri ti appartengono di più?

Nella Tarantino: Seguo molto il cinema est-asiatico. Wong Kar-wai, Kim Ki-duk, Jia Zhang-ke e tanti altri. Il cinema di Yasujirō Ozu resta per me la più grande fonte di ispirazione. I suoi temi sono universali e atemporali. Wenders lo descrisse come quanto “di più simile al paradiso” si potesse mai vedere. In fondo lui rappresenta la realtà nei suoi film, la realtà in forma lirica, assoluta, immobile, nonostante ne descriva i cambiamenti sociali. La fotografia è proprio questo: rappresentazione delle realtà in forma poetica. Il cinema di Ozu è più fotografia che cinema. Ogni fotogramma è un’immagine che potrebbe raccontare tante storie, proprio per il carattere di universalità.

Ma amo anche il cinema italiano dei grandi maestri, Michelangelo Antonioni al di sopra di tutti.

Per quanto riguarda la musica, ultimamente mi piace ascoltare colonne sonore di serie televisive. Ad esempio quella di The Leftovers di Max Richter, e le musiche di Joe Hisaishi colonne sonore dei film di Takeshi Kitano.

Amo molto la musica strumentale di Brian Eno unita alla voce di David Sylvian.

Il mio libro più importante da diversi anni resta sempre: Domani nella battaglia pensa a me, di Javier Marías.

Nella Tarantino

 

Angelo Zzaven: La nascita di un libro è sempre un evento importante per un'artista, ci parli brevemente del tuo volume We always return?

Nella Tarantino: Come tutte le cose che vivo, anche questa volta sembrava tutto mi spingesse a realizzare “We always return”. Come di un bisogno molto forte di fermarsi, fare il punto, riprendere fiato, capire. Una sosta necessaria.

Ma forse anche il timore di perdere tutto. Provengo dalla grafite e dalla pellicola, con cui ci si sporcavano le mani e si sentiva la materia, viva.

Gli hard disk non durano molto a lungo.

Ho pensato a mio figlio. Volevo lasciargli qualcosa di me. Non solo rotoli di disegno, ma anche delle fotografie, da non tenere esposte, ma racchiuse, posate in un angolo.

“We always return” contiene le fotografie scattate in questi ultimi sei anni, da quando ho ripreso, in modo serio, a fotografare. Le più significative, per me.

È diviso in tre sezioni. Molti scatti sono stati realizzati in Polonia.

È composto di 91 fotografie in bianco e nero, con testi introduttivi di Giusy Tigano, Giuseppe Cicozzetti e Carmine Mangone.

Nel titolo è contenuto tutto il senso del mio fotografare. Fotografare per dare forma al dolore.

Un respiro.

Fotografo perché dal nero si svelino forme di esistenza, lampi di ricordo o di sogno.

Cerco la bellezza, è il solo senso del vivere.

E a volte la trovo… a volte devo solo spostare un velo, o semplicemente alzare lo sguardo e ritrovarli, i tanti volti amati. Perché ogni cosa ritorni.

Nella Tarantino

 

Angelo Zzaven: Perché ogni cosa ritorni... E in futuro quale sogno vorresti si disvelasse?

Nella Tarantino: Non vorrei stancarmi mai, fino ad avere il coraggio di inoltrarmi in quella zona sconosciuta di cui ora avverto solo l’infinita distesa, l’inesplorato labirinto. Per riuscire finalmente a catturare i fantasmi che la abitano.

Angelo Zzaven: Cara Nella siamo giunti alla fine, ti ringrazio per il tempo che mi hai concesso, è stato piacevole chiacchierare con te. Come ultimo atto ti chiedo di rispondere a una domanda che non ti ho fatto.

Nella Tarantino: Ho paura che tutto questo possa improvvisamente svanire. 

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©Nella Tarantino ©Angelo Zzaven

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